Il luogo di partenza è Tucson,
Arizona 1979. Tre timidi ragazzi di provincia: Dan Stuart (chitarra), Jack Waterson
(basso) e Buddy Van Christian (batteria) cui si unirà a breve Chris Cacavas (tastiere)
passano il loro tempo sognando di diventare delle rock star. La loro band si chiamava
"Serfers" e mossi dalla smania di farsi ascoltare decidono di uscire dalla ristretta
scena di Tucson per dirigersi a Los Angeles. Neanche il tempo per rendersi conto
dove sbattere il naso, che avviene il primo avvicendamento nella band. Via il
batterista Buddy Van Christian, che se ne torna in Arizona (realizzerà in seguito
un proprio un mini-ep distribuito dalla Down There con il nome Naked Pray) e dentro
il nuovo Alex Mc Nicol (batterista con già qualche esperienza nei 13.13 di Lydia
Lunch). Dopo il cambio di nome in Green on Red, nel gennaio dell' '81 i
quattro si autoproducono 300 copie di un ep di cinque pezzi dal titolo Two
Bibles. L'ep, seppur acerbo e poco curato, piace a Steve Wynn , leader degli
emergenti Dream Syndicate che decide di produrre il successivo lavoro della band
per conto della sua label personale, la Down There. Nel 1982 esce il disco Green
on Red, altro ep costituito da 7 traccie meglio curate e arrangiate dell'esordio.
Il lavoro, senza dubbio di buona fattura, rimanda direttamente alle sonorità sixties,
ai Velvet Underground, alla psichedelia californiana ed ovviamente ai Doors, merito
in particolare del ruolo predominante rivestito dalle tastiere di Cacavas. Entrati
a pieno diritto nel nascente movimento Paisley Underground, i Green on Red, grazie
a Steve Wynn entrano in contatto con il produttore e musicista nonché tuttofare
della scena hard core californiana Chris Desjardins, che li assume alla Slash
pubblicando il loro primo lp Gravity Talks nel 1983. L'album oltre ad essere un
autentico capolavoro rappresenta anche uno dei dischi più rappresentativi della
scena californiana indipendente dei primi anni '80. A segnare le sorti
dei Green on Red sarà però l'ingresso del giovane chitarrista Chuck Prophet
IV. Dotato di una raffinata tecnica e con uno stile simile ai guitar-border
quali J.J.Cale e Ry Cooder, Prophet contribuirà in maniera decisiva ad indirizzare
i suoni della band verso sonorità più mature e "roots". Il primo disco realizzato
dalla nuova formazione allargata sarà Gas, Food and Lodging del 1985, uno degli
album più belli di rock americano del decennio. Alla psichedelia e ai suoni sixties
di Gravity Talks si aggiunge ora quello spirito da fuorilegge, quel mito della
fuga, del viaggio che risulterà in seguito il copione predominante nella carriera
dei Green on red. La chitarra desertica di Prophet riempe i suoni combinandosi
alla perfezione con le tastiere di Cacavas e dando un svolta rock al sound del
gruppo. I Green on Red hanno raggiunto il giusto equilibrio tra le varie anime
della band, ma i dissidi interni iniziano a farsi sentire. L'ep successivo No
free Lunch del 1986 è in realtà un esperimento, tra l'altro ben riuscito, di country
music, voluto e diretto dal riottoso Dan Stuart che cova in animo suo il cambio
di sceneggiatura, ma la formazione è ai ferri corti. Il primo ad andarsene è Alex
Mc Nicol e a breve lo seguiranno anche gli altri. "Il colpo di stato" vero e proprio
si manifesta con l'album The Killer Inside Me, in cui Stuart traghetta la band
verso orizzonti carichi di storie amare e maledette e dove la psichedelica e i
suoni adolescenziali sono completamente dimenticati. Questo è troppo anche per
Cacavas e Waterson, che incapaci di convivere con una personalità tanto complessa,
lasciano il gruppo. Quello che sarà dei nuovi Green on Red ridotti ormai
ad un duo di fuorilegge non potrà che essere un pugno di stupendi album (Here
comes the snakes, This Time Around, Scapegoats) e qualche ballata struggente,
dove il vero protagonista sarà il deserto e tutte quelle storie ai margini che
ci raccontano di un' America minore fatta di diavoli e polvere. Poco innovativi,
senza peli sulla lingua ed a giudizio di alcuni anche poco essenziali, ma probabilmente
è anche per questo che ci sono piaciuti tanto: sempre sinceri ed onesti fino alla
fine. |
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Gravity Talks [Slash 1983]
Dopo
qualche anno di gavetta a LA, la città all'epoca più esplosiva d'America,
tra violenti punkers e nascenti promesse della scena roots, ed un paio di buoni
ep seppur ancora acerbi, esce nel 1983 Gravity Talks. L'album, oltre
ad essere il primo vero disco compiuto della band, verrà ricordato nei manuali
di storia del rock come uno dei tre dischi più rappresentativi del giovane movimento
Paisley della California dei primi anni '80, assieme a "The Days of wine and roses"
dei Dream Syndicate e "Emergency third rail power trip" dei Rain Parade. Pubblicato
dalla Slash di Chris Desjardins, che dopo aver conosciuto la band grazie a Steve
Wynn non ha perso un attimo a metterli sotto contratto, il disco è senza dubbio
un piccolo capolavoro di rock acido e psichedelico che suona con un'immediatezza
ed un urgenza che solo una band di Los Angeles di quegli anni avrebbe potuto rendere.
Il rimando al passato si spreca: dal folk elettrico, al rock urbano
dei Velvet, dalle tastiere lisergiche di Ray Manzarek, fino al Dylan anfetaminico
a cui la voce nervosa di Danny Stuart a tratti rimanda, ma tutto il disco
vive di un proprio suono e di una propria identità che lo rende attuale e diverso
da qualsiasi altra cosa già sentita. A far da padrone nell'economia sonora del
gruppo poi non è la classica chitarra, ma bensì la tastiera doorsiana di Cris
Cacavas che ricopre le malinconiche e struggenti ballate di Stuart, che puzzano
di border e di sangue, di un suono lisergico ed acido, assolutamente distintivo.
Memorabili sono poi tutti i pezzi del disco, che si alternano tra struggenti ballate
malinconiche (Deliverance,
Over My Head, Cheap Wine) acidi
pezzi che sanno di psichedelia (Snake Bit,
Blue Parade, Narcolepsy)
e decadenti ballate noir (Five easy-pieces)
tutte perfette nel contribuire a fare di Gravity Talks un piccolo capolavoro di
rock garage. Animato da una vena malinconica e crepuscolare e da una perfetta
alchimia tra sonorità sixties e le nuove tendenze garage e new-wave che infuriavano
in quegli anni proprio a Los Angeles, il disco anche a distanza di anni rimane
infatti un piccola gemma di rock minore, di quei capolavori che nascono solo una
volta proprio perché profondamente legati alla gioventù e all'imprudenza di non
porsi mai dei limiti. I Green on Red di Gravity Talks infatti non esisteranno
più. Già l'ingresso del fuorilegge Prophet, che si unirà a breve alla comitiva,
contribuirà alla maturità artistica del gruppo creando le premesse per quella
svolta desertica che avrebbe perso gran parte della carica Paisley. Ma è inutile
rimpiangere il passato: d'altronde anche i Dream Syndicate non furono più quelli
del "giorno del vino e delle rose". Ciò che è più rilevante parlando
dei Green on Red è che i capitoli a venire siano ancora più memorabili e non lesineranno
di certo un buon condensato di rock e sudore. |
No Free Lunch [Mercury, 1985] L'amore
per le tradizioni e per la roots music americana, in parte già emerso nel capolavoro
Gas Food and Lodging, evidentemente era molto più forte e profondo di quanto ci
si potesse attendere, tant'è che tra lo stupore generale di critica e fans, la
band sforna nello stesso anno un ep di 7 tracce dalla fortissima influenza country.
Dopo la riscoperta del rock'n roll (è dello stesso anno "Hard Line" dei Blasters),
anche la country music, fino ad allora considerata musica del passato, recupera
una sua nuova identità grazie ad una serie di nuove giovani menti musicali (Jason
& The Scorches, The Long Ryders...) appassionate della genuinità e della capacità
di questa musica di cogliere quelle semplici cose della vita, completamente dimenticate
in un'epoca fatta di spot televisivi e finti eroi impomatati. Dire che
No Free Lunch abbia influenzato tutta la futura generazione no-depression
è come scoprire l'acqua calda, più interessante semmai è rilevare il profondo
stupore per un cambio di indirizzo tanto inatteso quanto azzardato. Le 7 traccie
dell'Ep ci consegnano una band che non conosciamo, che nulla ha a che spartire
con la rivoluzione Paisley, con le sonorità garage e con la psichedelia in generale.
No Free Lunch è un tuffo nello sconfinato paesaggio western e nella polvere del
deserto. E' un infinito viaggio tra stazioni di benzina, paesi di provincia, motel
da pochi dollari e poche notti, whiskey di seconda mano e birra calda tutto incasellato
in una meravigliosa cornice rosso fuoco come un orizzonte western che non tramonta
mai. Dan Stuart ci racconterà che era solo un esperimento, ma
canzoni come Time is nothing,
Jimmy Boy o Honest Man non verranno
certo dimenticate da nessuno, come un autentico capolavoro appare anche la rilettura
di uno standard country come Time Slips Away
di Willy Nelson. Se i nuovi Green On Red sono questi, è fin troppo evidente che
non c'è più spazio per tutti. Il primo ad andarsene sarà il batterista Alex "Big
Dog" MacNicol, ma presto il giorno delle grandi purghe arriverà ed in particolare
per Chris Cacavas, un tempo vera anima sonora del gruppo ed ora rilegato
ad un ruolo di semplice comprimario, i giorni appaiono sempre più contati. |
The Killer
Inside Me [Mercury,
1987] Per
molti considerato come un disco minore o addirittura trascurabile, in realtà The
Killer Inside me riascoltato a distanza di più di 20 anni dalla sua realizzazione
emana un fascino incredibile. Realizzato lungo l'asse Los Angeles - Memphis sotto
la regia del grande produttore sudista Jim Dickinson, "The Killer" è un
tuffo nell'America più sinistra e marginale, nel lato selvaggio della frontiera,
tra le visioni crepuscolari dei film di Sam Peckinpah e il sangue nero pece dei
romanzi hard-boiled di Jim Thompson. Ciò che rende meraviglioso "The Killer" è
in realtà il fatto che sia il disco più sincero e nudo della band. E' lo specchio
dell'anima, la fotografia sincera di un momento di passaggio tra il passato e
il futuro, tra la gioventù e la maturità. E come in ogni fase di cambiamento qualcosa
viene abbandonato e nulla è più come prima. Ad imporre la svolta è ovviamente
il riottoso Dan Stuart che con i soliti modi rozzi e poco consoni presenta
ai suoi compagni un cambio di registro essenziale. Il nuovo copione prevede un
rock potente e urbano ambientato sotto il grande sole nero della Città degli Angeli.
Per non appassire o fare la ruggine ci racconterà in seguito, o forse solo perché
Danny è davvero un gran vero figlio di puttana. Sempre al limite del
collasso psichico ed artistico, tra risse e sbronze colossali, Danny si imbatte
nel romanzi noir di Jim Thompson e se ne ossessiona al punto di identificarsi
spiritualmente con i protagonisti. Sono novelle maledette di una provincia sporca
e minacciosa, dove i personaggi, apparentemente innocui, si distinguono tra i
cattivi e i molto cattivi e dove il Killer è in realtà nell'animo di tutti. Immortalato
dalla meravigliosa fotografia di Ian Dawson l'album prende il nome proprio dal
romanzo "The Killer inside me" del 1952, una tra le novelle più note dello scrittore
americano. Se il mini ep No Free Lunch sanciva l'amore della band verso i grandi
spazi e i cieli rosso fuoco del sud ovest, con The Killer l'orizzonte diventa
nero come la pece e le storie amare e cariche di rabbia sono lo specchio dell'anima
irrequieta di Danny. Il sound è cinico, carico di un nervosismo dilagante, con
una voce che urla disperata come in preda ad un esorcismo. A sancire
il sound sudista, marchio di Dickinson, è la presenza di una forte venatura gospel
che rende spesso ancora più sinistri pezzi di una bellezza incredibile come No
Man's Land e Clarksville, dove
sembra non esserci via di fuga ad una minaccia incombente. Non manca certo un
pezzo come Born to fight, manifesto di tutti
i loser alla deriva in qualche bettola di periferia o qualche ballatona dal cuore
d'oro come Jamie. C'è ancora tempo per una fuga oltre il confine messicano (Sorry
Naomi), o per qualche altra ballata amara come Mighty
gun e We ain't free. Quando il
disco uscì all'epoca, quasi tutti lo battezzarono come un clamoroso passo falso,
pretenzioso e mal arrangiato, ma d'altronde conoscendo la strafottenza di Danny
"Big Daddy" Stuart è probabile che la cosa non gli abbia certo disturbato il sonno,
anzi magari è stato l'ennesimo buon pretesto per mandare a farsi fottere tutti
quanti. |
Here Come The Snakes [China, 1988]
Rappresentato
da un'ascia insanguinata immortalata nella cover del vinile, Here comes
the snake appare subito come una logica prosecuzione della sceneggiatura
noir di The Killer inside me. Ma l'apparenza inganna. Anticipato infatti dall'uscita
inevitabile dalla band sia di Cris Cacavas, sia di Jack Waterson, non più disposti
a subire l'arroganza e il despotismo di Dan Stuart, "Here comes the snake" suona
molto più sereno e rilassato del disco precedente. Sistemati gli attriti e i conflitti
con i vecchi fratelli, per Danny ormai rinfrancato dal controllo assoluto della
band, si apre una fase di maggiore tranquillità sia musicale che esistenziale.
Ridotti ormai ad un duo, i Green on Red proseguono la collaborazione con
Jim Dickinson realizzando un lavoro dai forti connotati sudisti e fuorilegge,
in cui le storie nere di criminalità urbana lasciano il posto ad un nuovo protagonista:
il deserto. I suoni sono minimali ed asciutti, poco presenti sono le tastiere
ed il pianoforte (che avevano ricoperto un ruolo essenziale nel precedente) e
completamente assenti i cori gospel. A far da padrone è la voce malinconica da
border di Stuart e la chitarra desertica e ad alta precisione del fido Prophet.
Registrato sempre a Mehmpis negli storici studi di Sam Phillips il cuore
di Here comes the snakes è costituito da un pugno di meravigliose ballate crepuscolari
cariche di polvere del deserto e di malinconia. Morning
Blue, Broken Radio,
Way Back Home, We Had It All (una
rilettura del classico soul di Donnie Fritts) sono alcune tra le canzoni più belle
mai scritte dai Green on Red e rimangono a tutt'oggi un perfetto esempio di come
questa generazione di musicisti in un epoca di tastiere e sintetizzatori, sia
riuscita con onestà e talento a traghettare il passato nel presente. Il rock di
strada è ben rappresentato dall'iniziale rollingstoniana
Keith Can't Read e da una meravigliosa Zombie
For Love dove sembra di essere immersi in un alcolico sabato sera in
qualche localaccio fumoso del sud. C'è spazio per un sinistro talking blues che
puzza di sporco come Tenderloin, dove la voce
infernale di Stuart è accompagnata da un armonica sanguinante e per una clamorosa
traccia desertica quale D.T. Blues dove la
chitarra di Prophet, lenta e anfetaminica rimanda al Neil Young di On The Beach.
I nuovi Green on Red piacciono e si ergono portabandiera di un rock
"dirty" e fuorilegge che unisce gli Stones di Beggars Banquet con il
Neil Young depresso dei '70, le visioni western di Sam Peckinpah al cinismo di
Jim Thompson. Diranno che non hanno inventato nulla ma poi è davvero una colpa?
In un epoca dominata da Spandau Ballet e Duran Duran, i Green on Red sono stati
essenziali in quanto hanno tenuto accesa la speranza a tutti coloro che credevano
ancora nel mito della strada e all'immagine del rock come espressione di libertà.
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Scapegoats [China, 1991] Poco
soddisfatti del suono "troppo pulito" di This Time Around, i Green on Red
decidono di cambiare per l'ennesima volta la sceneggiatura del loro film e, salutato
senza troppe lacrime Glyn Johns, si recano da Al Kooper, a Nashville, per
sottoporgli il loro nuovo copione western-oriented. L'alchimia che si crea fra
i tre è immediata ed il lavoro che ne esce è un autentico capolavoro di american
music che emana un fascino ed una bellezza ad oggi inalterata. Circondati da un
gruppo di amici e collaboratori di grande qualità (Dan Penn, Spooner Oldham, Tony
Joe White ), sotto la regia impeccabile del veterano Al Kooper i Green on Red
recuperano il senso ed il fascino della loro anima crepuscolare realizzando un
lavoro pieno di riferimenti al deserto, alle storie di confine e ad una certa
letteratura noir che ne ha sempre segnato il percorso artistico. Scapegoats
è forse il loro lavoro più epico e cinematografico in assoluto, a tratti sembra
davvero di essere catapultati in qualche pellicola western di serie B o in qualche
scena carica di violenza e vietata ai minori di Sam Pechinpah. Il suono,
a tratti intimista e country-oriented che predomina l'intero lavoro, da libero
sfogo all'animo fuorilegge e crepuscolare della band, riuscendo a recuperare quelle
atmosfere epiche e quelle sonorità border che proprio This Time Around con il
suo rock "senza sbavature" aveva tralasciato. Ci sarà spazio ancora per un ultimo
saluto (Too Much Fun) ma con Scapegoats i Green on red si congedano con un disco
out of time, fuori da ogni moda e da ogni corrente paradossalmente proprio
in un periodo (inizi anni '90) dove il recupero delle tradizioni e delle radici
sarebbe diventata la nuova tendenza del giovane rock provinciale d'America. Il
disco si apre con la meravigliosa ballata A Guy like
Me dove l'organo di Al Kooper ci rimanda al Dylan dei tempi migliori.
L'atmosfera è country-oriented, con la voce di Stuart finalmente serena e rilassata,
segno forse di una ritrovata pace interiore. Little things
in life è uno dei capolavori dell'album, una dolce ballata acustica,
dai forti sapori roots, suonata con un approccio intimo quasi domestico. Segue
Two lovers (waitin' to die) e qui sembra
davvero di essere immersi in una pellicola western. Sole, vento e polvere, l'armonica
sanguinante di Tony Joe White per una delle tracce più crepuscolari mai ascoltate.
Gold in the graveyard è il primo
pezzo elettrico dell'album. Chitarre elettriche rollingstoniane ma sempre ben
definite in una cornice di frontiera. Segue Hector's
out, ballata lisergica un po' atipica guidata dai sintetizzatori e
dagli arrangiamenti di Al Kooper. C'è poi spazio per una ballata country quale
Shed a tear (for lonsome) che riporta l'album
all'interno dei confini della musica roots. Dopo Blowfly,
una ballata elettrica di buona fattura, è il momento per un altro capolavoro ovvero
Sun goes down. Il pezzo, lento e carico di
tensione, rimanda alle classiche sonorità desertiche e crepuscolari della band
e sembra di riascoltare alcune delle cose più pregiate di The Killer inside me
o Here Comes the snakes. C'è infine spazio per un'altra traccia country quale
Where the rooster crows con Spooner Oldham
al piano e Dan Penn alla chitarra acustica, prima che a concludere l'album sia
una toccante e meravigliosa Baby loves her gun
che rimane ad oggi come una delle ballate più belle che i Green on Red abbiano
mai scritto. | |
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This Time Around
[China, 1989] "Why
do we play music ? ……we're too lazy to work and too nervous to steal". Troppo
pigri per lavorare e troppo nevrotici per rubare. A mettere subito le cose in
chiaro (se ce ne fosse ancora bisogno) sono proprio le note interne di questo
This Time Around. L'immagine di copertina, un braccio con tatuata
la frase "Born to lose" ritratta in una zona poco raccomandabile della città,
è d'altronde già sufficiente a rappresentarci uno stile di vita ai margini, vissuto
sempre nella parte sbagliata della strada e dove il rock è l'unico mezzo di espressione
per dare senso e dignità alle storie dei perdenti e dei fuorilegge. Nonostante
si dichiarino pigri, This Time Around è in realtà il terzo lavoro sfornato in
solo tre anni, a dimostrazione di come i due stiano passando una fase di grande
creatività. Il nuovo lavoro segna il cambio di regia nella produzione. Chiusa
la collaborazione con Jim Dickinson, i Green on Red si rivolgono ora al grande
Glyn Johns (Rolling Stones, The Who) con il fine di realizzare un album
con maggiori connotati rock. Il lavoro che ne esce, infatti, abbandona la polvere
del deserto e le ballate di confine, per indirizzarsi verso un rock stradaiolo
e rollingstoniano fatto di riff secchi e chitarre elettriche. Il risultato complessivo
è però spiazzante per tutti coloro che dei Green on Red hanno apprezzato il lato
crepuscolare della loro musica. I pezzi del nuovo album, s'intende di
ottima fattura, non presentano sbavature e il suono è talmente pulito e curato
da non fare emergere quelle "imperfezioni", e quello "sporco" che aveva reso i
dischi precedenti dei capolavori. A distanza di qualche anno anche Dan Stuart
considererà addirittura "merda" This Time Around, reo di apparire un
disco fatto al computer, che "non suda". Che per Danny le cose siano sempre state
solo bianche o nere, già lo sappiamo, e nella realtà, per gli amanti del vero
rock oggi sempre più in crisi di astinenza, This Time Around, seppur con i difetti
sopra citati, è comunque un disco tutt'altro da buttare. A partire proprio dalla
title track che anticipa nei suoi 3 minuti il suono dell'intero lavoro: riff stradaiolo
ed una voce secca, sempre pronta ad offendere. Sulla falsa riga dalla prima traccia
seguono pezzi elettrici secchi, diretti nel vero stile rock quali Cool
million, Rev. Luther,
The Quarter e Foot dove a far
da padrone è l'mpeccabile solista di Prophet. Belle le ballate quali
Good patient women, You
couldn't get arrested e Hold the line
che rimandano al lato selvaggio della strada. C'è infine spazio per un country-boogie
(forse un po fuori contesto) come Pills and booze.
Disco di buona levatura ma inferiore ai suoi precedenti, This Time Around rimanda
ai dischi dei Rolling Stones ed in particolare a Tattoo You del 1981, forse l'ultimo
grande capolavoro delle pietre rotolanti. Ascoltate quanto assomigli la title
track This Time Around che apre il disco
a Start me up. |
Too Much Fun [China,
1992] Il
compito ingrato di concludere la storia dei Green on Red spetta a questo trascurabile
Too Much Fun che esce a distanza di un anno dal capolavoro Scapegoats.
Il disco appare subito scarico di mordente e grinta, con tonalità eccessivamente
dimesse che sembrano indicare una vera e propria resa più che una scelta musicale.
Certo la classe non è acqua e l'esecuzione dei brani è impeccabile, ma il senso
di stanchezza e di sufficienza che si respira rendono Too Much Fun un disco che
cade in breve tempo nel dimenticatoio. Registrato in poche sedute a Tucson, il
disco è un concentrato di dimesse ballate dall'impronta country (Too
much Fun, Sweetest thing,
Wait and see e Rainy days and Mondays)
di blues da strada senza mordente (She's all mine,
Frozen in my headlights, Love
is insane) e di qualche rockaccio di rollingstoniana memoria (Thing
or two, Love is insane). A ricordarci
i vecchi fasti hard-boiled c'è una bella The Getaway,
riff secco, ritmo medio, autostrade e polvere, forse il pezzo più convincente
dell'intero disco, ma è l'assenza di grinta e di partecipazione che fa puzzare
tutto il disco di vecchio e di già sentito. E' la prima volta in cui
sembra che i Green on Red si limitino ad eseguire passivamente un compito come
fossero degli impiegati postali, il Killer ha fatto le valige ed anche quella
sensazione di essere perennemente fuorilegge che rendeva unici i vecchi dischi,
sembra completamente svanita. Too Much Fun ricorda più un disco di Robert Cray
che di Robert Johnson. Forse qualcosa si è rotto o forse semplicemente dopo dieci
anni di fughe e di corse oltre il confine anche per i nostri fuorilegge è giunto
il momento di appendere gli stivali al chiodo. D'altronde anche Pat Garrett dopo
una vitaccia passata a fare il bandito, decide ad una certa età di fare lo sceriffo
con uno stipendio fisso: "….è un lavoro…arriva un'età nella vita di un uomo in
cui non si vuole troppo perdere tempo per pensare di cui vivere". Prophet
proseguirà un onesta carriera fatta di una decina di album di buona fattura, mentre
Stuart dopo un paio di dischi solisti poco riusciti svanisce nel nulla emigrando
in Europa. Con la fine dei Green on Red cala definitivamente il sipario sul roots
rock degli anni '80, uno dei movimenti più fruttuosi e allo stesso tempo sottovalutati
dell'intera storia del rock americano. Solo i Giant Sand grazie all'ingresso nella
band di nuovi musicisti (Convertino e Burns) riusciranno a trovare nuovi stimoli
e nuovi percorsi mantenendo sempre alta la bandiera del desert-rock.
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