"C'era una volta una città
magica, piena di una musica che si poteva sentire ovunque, nelle strade, nei bar,
nelle radio. E in quella città i musicisti erano divinità, retti esempi della
stessa "good way of life" cantata in quelle dolci e disincantate canzoni, fatte
di storie di famiglia, lavoro e amore per la propria terra. Ma un giorno successe
qualcosa di brutto: uno di quei cantanti divenne mito, cantò di depressione, violenza
e sbronze esistenziali, e morì da esiliato. La città magica lo pianse tirando
un sospiro di sollievo, ma la miccia era accesa, e dopo di lui vennero una serie
di fuorilegge che misero a ferro e a fuoco la città. I vecchi potenti della città
si difesero cercando di addomesticare i riottosi, coinvolgendoli il più possibile
nei propri progetti fatti di sicurezza e tradizione, ma serviva che fosse un giovane
a riportare tutti sulla retta via. Così venne Lui, e li mise d'accordo tutti,
i vecchi con i giovani, i tradizionalisti con i fuorilegge, i reazionari con i
rivoluzionari, sposò la figlia del capo dei cattivi e la portò dalla parte dei
buoni. La città lo ringraziò, ma, risolto il problema, gli voltò subito le spalle,
e si dimenticò prestò del nuovo eroe; il quale, deluso e abbandonato, scappò,
tornando anni dopo solo per cantare la corruzione e la falsità di quella città,
che rimase, nonostante tutto, sempre e comunque magica…" Sembra
la favola del Pifferaio di Hamlin, invece è (con parecchie licenze poetiche) la
storia di Rodney Crowell. La vita dell'uomo che salvò Nashville inizia
il 7 agosto 1950 a Houston in Texas, ma la sua storia artistica inizia nel 1972
con un gruppo locale chiamato The Arbitrators. E' in quegli anni che stringe una
forte amicizia con due suoi eroi, Guy Clark e Townes Van Zandt, ed è proprio per
seguire i due che Rodney approda a Nashville, la Mecca della country-music, la
città magica dove cercare la giusta occasione. La prima gliela regala il chitarrista
Jerry Reed (scomparso recentemente), mito locale che lo assume come autore per
la sua società di pubblicazioni. Ma la vera occasione arriva quando Rodney incontra
Emmylou Harris, giovane promessa pronta a sbocciare dopo la morte del suo
mentore Gram Parsons. La Harris lo imbarca subito come chitarrista nella seminale
avventura della sua Hot Band e ne sfrutta fin da subito le doti di autore,
incidendo per prima molti suoi brani come Amarillo, Till I Gain Control, Tulsa
Queen, e I Ain't Livin' Long Like This. Forte della notorietà acquisita al fianco
di Emmylou, Crowell prova il gran passo, prima fondando con Vince Gill un estemporaneo
gruppo di giovani promesse (i Cherry Bombs, che pubblicheranno un unico album
nel 2004 in pieno clima nostalgico), e poi firmando per la Warner Bros un contratto
a proprio nome. Le sue doti di songwriter e musicista sono ormai riconosciute
da tutti, tanto che nel 1979 è nientemeno che Rosanne Cash, la figlia di Johnny,
a chiamarlo a scrivere e produrre il suo album di debutto Right Or Wrong (che
uscirà solo nel 1980), un matrimonio artistico talmente ben riuscito, da diventare
nozze effettive anche nella vita. Nonostante le ottime premesse però, la carriera
solista di Crowell non prende quota: il primo ottimo disco vende appena 20.000
copie, il secondo riesce appena a piazzare il singolo Ashes By Now al trentasettesimo
posto delle country-charts, mentre il terzo disco del 1981 sparisce presto dagli
scaffali. La sua carriera di fatto era partita fuori tempo massimo: la
Nashville che aveva sognato stava lentamente scomparendo, molti eroi degli anni
70 come Willie Nelson (e la stessa Emmylou Harris) vennero a patti con le esigenze
dell'industria discografica per rimanere a galla negli anni 80, qualcuno provò
a navigare da solo (John Prine), molti altri scomparirono dalla scena (Lee Clayton
e molti altri). In questo scenario di sconfitta per il cosiddetto country d'autore,
Crowell salvò la pelle grazie alla sua attività di autore, e mentre i suoi dischi
prendevano polvere nei negozi, i suoi brani devastavano le charts grazie ad altri
artisti. Gli Oak Ridge Boys con Leavin' Louisiana In The Broad Daylight, Crystal
Gale con Till I Gain Control Again, Bob Seger con Shame on the Moon sono solo
alcune dei numeri uno di Billboard firmati Crowell nei primi anni '80. Ma il decennio
fu difficile: il matrimonio con Rosanne cominciò a deragliare nelle droghe e nell'alcool,
mentre la Warner Bros nel 1984 rifiutò di pubblicare l'album Street Language perché
non in linea con le richieste del mercato (il titolo vide la luce solo nel 1986
grazie alla Columbia). Le cose ricominciarono a girare bene solo nel
1987, prima grazie al successo dell'album di Rosanne Cash, King's Record Shop,
da lui prodotto, e poi con il clamoroso botto commerciale del suo Diamonds
& Dirt, il disco che salvò letteralmente Nashville. Forte di un successo
che lo vedeva per la prima volta protagonista in prima persona, Crowell tentò
di portare avanti un suo discorso di country-pop d'autore con convinzione e (finalmente)
anche mezzi, ma ancora una volta Nashville fagocitò le sue speranze, inebriata
da un rilancio commerciale i cui frutti furono poi raccolti da una nuova generazione
di giovani country-singers dalle vendite a dir poco vertiginose. Così mentre Garth
Brooks diventava l'artista più venduto di sempre pubblicando dischetti pensati
spremendo Diamonds & Dirt fino al midollo e rilevandone solo il lato più radiofonico,
a metà anni 90 Crowell era di nuovo un reietto abbandonato dall'industria discografica
e dalla moglie Rosanne (divorzio ufficiale nel 1991). Tornerà in alto negli anni
2000, con una produzione di gran livello e la libertà di cantare la sua città
con nuove parole, dure e taglienti come quelle degli innamorati respinti.
Tipico personaggio da dietro le quinte dello show-business, Crowell
ha rappresentato l'ala destra del movimento dei neo-tradizionalisti di fine anni
'80, impersonando il link mancante tra la tradizione pura e la generazione dei
nuovi fuorilegge nashvilliani (Steve Earle, Dwight Yoakam…). Sul suo nome si registrano
attestazioni di stima da entrambe le parti, e forse è a causa di questo suo essere
sempre in mezzo al guado che il suo non è mai stato nome di culto, oltre che per
quel suo stile pulito e da bravo ragazzo che lo ha reso sempre carente di fascino
da rockstar. Nella sua carriera ha fatto dischi importanti e anche molto influenti,
ma gli è forse mancato il capolavoro universalmente riconosciuto per poter essere
annoverato tra i numeri uno. Ed è forse proprio perché la sua firma è stata più
decisiva della sua opera che quest'ultima merita di essere riascoltata e ripensata
sotto una nuova luce. |
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Diamonds & Dirt [Columbia/ Legacy 1988]
Esiste
un'intera generazione di appassionati di musica che ha scoperto Rodney Crowell
con questo album…e se ne è fatto inevitabilmente un'idea distorta. Veniamo ai
fatti: nel 1988 era (discutibile) opinione comune che Nashville fosse una bella
addormentata che partoriva zuccherosi singoli esclusivamente per le proprie classifiche.
Vero era che in quegli anni la parola "country" faceva quasi orrore alle giovani
generazioni di ascoltatori, ma le cose cominciarono a cambiare nel 1986, quando
la città fu invasa da una nuova generazione di artisti (che vennero bollati come
"neo-tradizionalisti") che parlavano un idioma musicale più moderno e "young-friendly".
In questo clima di guerra civile tra vecchi appagati e giovani ribelli arrivò
questo disco come un fulmine a ciel sereno. Crowell sfruttò le proprie buone credenziali
presso le case discografiche per registrarlo in piena libertà e con i musicisti
a lui più consoni, in cambio consegnò un bestseller che arrivò fino all'ottavo
posto delle classifiche di Billboard e, fatto ancora oggi imbattuto nel libro
dei record, 5 singoli autografi tratti dallo stesso album tutti al primo posto.
Il segreto di questo improvviso successo fu la "mediazione perfetta" sottoforma
di 10 country-pop-songs pulite e perfette come da tradizione, ma suonate con la
grinta e la strafottenza dei nuovi monelli nashvilliani. Diamonds & Dirt
piacque a tutti, il duetto con la moglie Rosanne di It's
Such A Small World era rassicurante quanto la melodia di She's
Crazy For Leavin' inevitabilmente contagiosa,
Crazy Baby e I Know You're Married baldanzose
e sbruffone quanto After All This Time e The
Last Waltz malinconiche e ispirate. Se per il pubblico europeo Crowell
rimarrà sempre "troppo country" e per quello americano sempre troppo poco, sarà
sempre "colpa" di questo disco che suona ancora oggi fresco ed elettrizzante nella
sua perfetta essenzialità. | |
The Cicadas [Warner, 1997] Chi
nel 2001 si sorprese per la svolta di The Houston Kid semplicemente era uno dei
tanti (praticamente tutti) che avevano ignorato questo side-project uscito in
sordina e presto scomparso dalla circolazione (è stato finalmente ristampato nel
2007). Dietro l'effimera sigla di una band si celava un Crowell quasi desideroso
di nascondere le proprie intenzioni, ma questo disco è suo al 100%, anche se l'apporto
degli ottimi comprimari e collaboratori di lunga data (Steuart Smith -chitarre
e co-produttore, Michael Rhodes - basso e Vince Santoro - batteria) fu decisivo
nel creare un nuovo sound fieramente rock-oriented. Chitarre affilate, batterie
decise e un piglio energico evidenziato in due cover da suonare ad alto volume
come una Tobacco Road in chiave quasi Hendrixiana
e una Blonde Ambition che respira puro blue-collar
rock da bar. Da altri lidi arriva anche la splendida Wish
You Were Her, brano co-firmato da Bono degli U2 con T-Bone Burnett
nel lontano 1985, mentre significativo è l'attacco del disco di When
Losers Rule The World, inno ai perdenti scritto con uno specialista
in materia come Ben Vaughn. La voglia di altri suoni lo porta ad una We
Want Everything che sembra un brano sfuggito al Tom Petty di Wildflower,
una Our Little Town che cementa ancora una
volta l'amicizia artistica con il co-autore Guy Clark e altri brani decisamente
interessanti come Nothing (cantata con il
suo discepolo più meritevole Jim Lauderdale) e Through
The Past. Il capolavoro arriva alla fine, con i sei minuti di
Still Learning How To Fly, epica ed enfatica al punto giusto. Disco
fuori dal tempo, The Cicadas non venne preso sul serio e fu considerato una scampagnata
di un autore in cerca di una nuova ragione di essere, quando invece era l'inizio
di una maturità che darà ottimi frutti. | |
The Houston Kid [Sugar
Hill, 2001] Sembra
davvero una favola: la fuga da Nashville, il silenzio e l'oblio, e poi il ritorno
con il disco cercato per una vita. The Houston Kid è l'autobiografia
di Crowell, raccontata attraverso piccole istantanee della sua fanciullezza a
Houston. Un'infanzia non certo spensierata: Rock Of My
Soul racconta la storia di un padre che abusa di madre e figlio, I
Wish It Would Rain affronta i sensi di colpa per come da ragazzino
abbia evitato un vicino di casa malato di AIDS, Wandering
Boy è una dedica non proprio serena a tutti gli amici di un tempo,
mentre Telephone Road sfiora la letteratura
con i ricordi di bagni, giri in motoretta e gelati comprati con soldi grattati
qui e là. Su tutto il disco aleggia pesante lo spirito della famiglia Cash: Rodney
prova a riconciliarsi a suo modo dedicando alla ex moglie Rosanne l'arrabbiata
U Don't Know How Much I Hate You, serie di
recriminazioni per un amore mal risolto, ma anche la confessione di quanto oggi
si senta solo senza la compagna di mille avventure. Piena riconciliazione invece
con l'ex suocero Johnny Cash, prima evocato in Telephone Road, e poi direttamente
omaggiato in Walk The Line (Revisited). Pare
che Johnny rimproverasse sempre a Rodney di suonare dal vivo la sua canzone con
il ritmo sbagliato, così lui pensò bene di terminare la discussione scrivendo
un racconto sulla prima volta che sentì il brano alla radio e lasciando a Johnny
l'onore di intervenire cantando il brano originale (nel video Cash appare in un
filmato d'epoca come un flashback). Ma la vera riconciliazione Crowell la trovò
con sè stesso nel suono del disco, perfetto punto di incrocio tra il country più
classico, il folk e il rock, esattamente quello che cercava da tempo e che solo
accasandosi nell'indipendente Sugar Hill (la stessa etichetta che ha salvato la
carriera a Guy Clark…) ha potuto realizzare senza condizionamenti. The Houston
Kid non è solo il disco della sua maturità, ma è anche il punto di partenza di
una nuova carriera, l'inizio di un sentiero che Rodney avrebbe volentieri percorso
fin dal 1977. | |
Fate's Right Hand [DMZ/Epic, 2003]
Presa
la mano, Crowell realizza un altro disco imprescindibile con Fate's Right
Hand. Caratterizzato da toni ancora più introspettivi e da un sound elettro-acustico
perfettamente prodotto (lo aiuta stavolta il vecchio Pete Coleman) e mai banale,
il disco testimonia la ritrovata convinzione nei propri mezzi. La partenza ribadisce
la bontà del dimenticato disco dei Cicadas ripescando Learning
How To Fly, probabilmente il brano che meglio descrive la storia di
un artista dalla lenta e dolorosa maturazione, e soprattutto la raggiunta consapevolezza
di essere uno strano ibrido di artista country-rock destinato a battaglie solitarie
fino alla fine. Qui trovate alcuni suoi piccoli capolavori d'autore come la diretta
Time To Go Inward, bellissimo inventario delle
proprie esperienze e delle proprie emozioni dopo trent'anni on the road, oppure
l'epica title-track, una delle sue cose migliori di sempre, un testo intraducibile
fatto di giochi di parole a dichiarare il proprio totale disorientamento nel mondo
moderno. Nè rock, né country, il nuovo Crowell viaggia sulle corde di rock acustico
cantautoriale che ben si sposa con la sua forte attitudine melodica, facendo così
risplendere brani come The Man In Me,
Ridin'Out The Storm e This Too Will Pass.
Perfettamente dosato tra riflessione (Adam's Song)
e divertimento (Preachin' To The Choir), Fate's
Right Hand si può tranquillamente ritenere il suo disco della raggiunta maturità.
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But What Will
the Neighbors Think [Warner Bros., 1980]
Fatte
le debite distanze, il tentativo fu simile a quello operato dai Byrds di Sweetheart
Of The Rodeo: prendere la tradizione di Nashville e portarla su terreni nuovi,
senza snaturarne il senso e il suono. Nel caso dei Byrds la terra straniera era
quella del rock, qui invece Crowell tentò una strana virata verso la new wave.
Il co-produttore Craig Leon era appena uscito dalle sale di registrazione di Blondie,
Suicide, Richard Hell & the Voidoids e Ramones, e tentò di aggiornare l'outlaw-sound
dell'esordio inserendo batterie più pesanti e chitarre più metalliche. Rodney
fornì ottime prove come perfomer, dimostrandosi a suo agio in episodi puramente
rock come Here Comes The 80's, Queen
Of Hearts o la rockabilly It's Only Rock And
Roll, ma perdendo grinta e incisività negli episodi più romantici come
Oh, What A Feeling, dove il country-sound
qui abiurato (e relegato alla scanzonata Heartbroke di
Guy Clark) avrebbe reso ben altri servizi. Se il singolo Ashes
By Now resta una delle sue love-song più coinvolgenti, On
A Real Good Night segue palesemente le orme delle ballate pianistiche
di Bob Seger, e altrove il giovane Rodney cerca di seguire sentieri alternativi,
con risultati buoni come il bel viaggio nel delta di Blues
In The Daytime (con la chitarra di Albert Lee in gran spolvero) o meno
determinati, come lo strano sixties-folk di The One About
England. | |
Rodney Crowell
[Warner Bros., 1980] Prima
di sparire nel vortice di plastica degli anni '80, Crowell pubblicò un buon terzo
disco senza titolo, che rimane forse il miglior elenco di ragioni del suo mancato
successo. Forte di due brani in puro Gram Parsons-style che diventeranno bestseller
in mani altrui (la splendida Shame On The Moon
e la ultra-rivisitata Til I Gain Control Again,
forse il suo brano più classico), il disco oscillava senza prendere una posizione
netta e decisa tra voglie ben poco nascoste di honky-tonk rock (Just
Wanna Dance, Don't Need No Other Now
e Old Pipeliner) e tentativi di assecondare
con piena dignità le richieste di sugar-pop della Warner Bros con le più che accettabili
romanze di Victim Or A Fool e Stars
On The Water. Avere nello stesso disco canzoni "easy-going" come All
You've Got To Do o Only Two Hearts
e momenti di canzone d'autore vera come la bella cover di She
Ain't Going Nowhere di Guy Clark era troppo disorientante perché il
disco potesse creare uno zoccolo duro di fans fedeli. Incapace di accettare completamente
i compromessi richiesti dal nuovo mercato discografico, Crowell chiuse la prima
parte della sua carriera con un disco puramente nashvilliano che anticiperà di
qualche anno la svolta neo-tradizionalista. | |
Street Language
[Columbia, 1986] E'
solo una delle tante storie degli anni '80, l'ennesima prova delle violenze artistiche
perpetrate dalle case discografiche, che in quegli anni la facevano veramente
da padrone (e meno male che oggi possiamo parlare di queste cose come di un fenomeno
passato). Accadde che nel 1984 Crowell presentò il suo quarto disco alla Warner
Bros, che lo rifiutò per la mancanza di un 45 giri plausibile. Quando la Columbia
accettò di prendersi l'onere erano già passati due anni, ma nonostante Street
Language uscisse in ritardo e già vecchio per il mercato, le critiche
furono tutto sommato positive. Il disco seguiva la nuova idea di country moderno
di Crowell, che per l'occasione accentuò le spruzzate soul mettendo Booker T.
Jones alle tastiere, Billy Joe Walker alle chitarre e utilizzando i fiati degli
Uptown Horns, ma risultando un po' troppo confuso sul modo di scrivere il nuovo
genere. Brillano Let Freedom Ring e Ballad
Of Fast Eddie, piace la cover di She Loves
The Jerk di John Hiatt (che collaborava a tutto il disco), e sebbene
oggi il suono appaia inesorabilmente datato e superato, Street Language risulta
essere ancora un disco al di sopra della media del suo periodo. |
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Keys to the Highway [Columbia/Lucky
Dog, 1989] Aveva
i soldi, aveva i musicisti (una super-band battezzata The Dixie Pearls) e aveva
la fiducia della casa discografica: Keys To The Highway fu il classico
fallimento da ansia da prestazione, ma in fondo bisogna rendergli merito sulle
ragioni. Diamonds & Dirt infatti era un disco intransigentemente country, esattamente
quello che Rodney non voleva essere. Il suo errore fu la fretta: invece di consolidare
il successo e sfruttarne successivamente le libertà d'azione, lui consegnò subito
alle stampe uno strano ibrido che mischiava senza troppo raziocinio country melenso,
cantautorato classico, rock e blues, una ratatouille di influenze che fece solo
rimpiangere la monolitica unitarietà e lievità del predecessore. Il pasticcio
non fu tanto la varietà, che comunque gli rese di nuovo nemica la Nashville più
tradizionalista, quanto l'aver comunque confezionato il tutto con la scintillante
e plastificata produzione di Tony Brown, quando invece l'occasione sarebbe
stata propizia per una ricerca sonora più coraggiosa e meno radio-friendly. Nulla
di male se decidete di dargli una chance, Soul Searchin',
Faith Is Mine e Things
I've Wish I've Said sono ulteriori testimonianze di una penna felicemente
delicata, ma questo era un Crowell troppo lontano dal suo stesso spirito rock
and roll di fondo per poter far innamorare. | |
Life is Messy
[Columbia/Lucky Dog, 1992] Deluso
dalle reazioni negative suscitate da Keys To The Highway, Crowell passa i primi
anni 90 in piena crisi artistica, indeciso sulla strada da intraprendere. Stanca
di una vita passata sulle montagne russe dei suoi umori, la moglie Rosanne lo
lascia ufficialmente nel 1991, e se l'ultimo disco da grandi produzioni della
sua carriera venne intitolato Life Is Messy (la vita è un casino)
non sorprende più di tanto. Life Is Messy tentava (senza riuscirci) una decisa
presa di distanza dal nuovo country commerciale di Nashville che lui stesso aveva
contribuito a rilanciare, con dieci brani di pop-rock infarciti di melodie sixties
(su tutte la bella Answer Is Yes), carellate
honky tonk da viaggio in macchina (It Don't Get better
Than This o Lovin'All Night) e
l'onore di un brano co-firmato con Roy Orbison (la sdolcinatissima What
Kind Of Love) e uno con il suocero Johnny Cash (l'epica e struggente
I Hardly Know How To Be Myself). La produzione
patinatissima e decisamente stagionata del "Signor Joni Mitchell" Larry Klein
e del "Signor Shawn Colvin" John Leventhal e uno stuolo di ospiti d'onore (Steve
Winwood, Linda Ronstadt, Don Henley, Jim Lauderdale, senza contare l'elenco di
session-man di primissimo livello) bastarono solo a dargli un decente commiato
dalle luci della ribalta. La Columbia infatti non si preoccupò nemmeno di promuovere
il disco e lo scaricò senza troppi complimenti. | |
Let the Picture
Paint Itself
Jewel of the South [MCA, 1994/1995]
A
risollevare la carriera di Crowell ci prova senza troppa convinzione la MCA dell'amico
e produttore Tony Brown, che produce due dischi tra il 1994 e il 1995, accomunati
da copertine orride e una mancanza di focus su chi essere e dove andare da parte
del padrone di casa. Let The Picture Paint Itself parte convinto
con la bella title-track, sicuramente episodio da considerare per una suo ipoetico
The Best, ma prosegue nell'ovvietà di una serie di country-songs sempre indecise
se voler volgere verso suoni più rocciosi o abbracciare la salutare leggerezza
del pop. L'amico Guy Clark aiuta il disco ad acquistare spessore co-firmando
Stuff That Works (che finirà anche nel suo Dublin Blues) e The
Rose Of Memphis, ma non basta. Senza grandi novità anche Jewel
Of The South, se non qualche buon tentativo di inserire elementi tex-mex
nella title-track e nella bella storia di The Ballad
Of Possum Potez, brani che con il potente rock di Love
To Burn rendono il disco tra i suoi più vari stilisticamente. Compaiono
qui titoli comunque importanti come Just Say Yes
e una divertita cover del classico Candy Man,
altro indiretto omaggio a Roy Orbison, presente in firma ancora una volta nel
finale di Que'Es Amor. Il periodo MCA venne
così consegnato alla storia come una prova di grande classe e professionalità,
con vendite al solito scarse, ma ormai era evidente che Crowell stava rimanendo
indietro rispetto alle produzioni contemporanee di un Dwight Yoakam o dell'altro
astro nascente Jim Lauderdale. | |
The Outsider
[Columbia, 2005] Rinfrancato
dalle ottime critiche ricevute con i due dischi precedenti, nel 2005 Crowell torna
all'amata/odiata Columbia per pubblicare The Outsider, probabilmente
il suo disco più rock e fracassone. Chitarre in libertà (Will Kimborough e Pat
Buchanan), suoni con volumi alti e ritmi serrati: The Outsider è un disco nato
per poter strabiliare anche dal vivo, con brani assolutamente funzionali all'esaltazione
di una folla come Say You Love Me o la serrata
invettiva di The Obscenity Prayer, con sassolini
da togliersi dalle scarpe verso la Nashville più detestata ("Le Dixie Chicks mi
possono baciare il culo, ma non ho ancora avuto il pass per il loro backstage").
Il disco alterna guasconate da bulletto di campagna (Things
That Go Bump In The Day, con dichiarazioni tipo "mi sento James Dean
con te tra le braccia"..), rockettini facili e cantabili (Don't
Get Me Started) a dylanismi vari che vanno da una Dancin
Circles Round The Sun che tiene i ritmi dei malati blues sotterranei
di Bob, ad una Beautiful Despair che spara
subito un verso come "Bella disperazione è ascoltare Dylan alle 3 del mattino…",
fino ad una interessante cover di Shelter From The Storm
che serve più che altro ad una rimpatriata con la vecchia amica Emmylou Harris.
Sempre la Harris e John Prine offrono un recitato nell'altro manifesto elettorale
di Ignorance Is The Enemy, corale e retoricissimo
appello alla nazione, utile più che altro a ribadire come Crowell rimanga autore
poco avvezzo a temi sociali e più a suo agio con i sentimenti. Resta anche la
title-track, sorta di resoconto di una vita da eterna promessa e un disco tra
i più immediatamente assimilabili del suo catalogo. |
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Sex & Gasoline
[Yep Roc, 2008] L'altra
faccia del pompato The Outsider è il rilassato Sex And Gasoline,
forte di una copertina da spavaldo latin-lover del giorno dopo, e soprattutto
primo grande tentativo della sua carriera di venire a patti con una forte creatività
altrui. Il pigmalione del disco è un Joe Henry ormai subissato di richieste
come produttore e arrivato al punto di imprimere su ogni disco un marchio fin
troppo personale e riconoscibile. Disco di gran livello per suoni (ottime le chitarre
di Doyle Bramhall III e Greg Leisz) e songwriting, Sex And Gasoline appare però
un po' come un'occasione persa del suo percorso, perché il risultato è appena
discreto e decisamente al di sotto delle aspettative. Rodney da par suo ha offerto
al progetto alcune ottime canzoni come la divertente title-track o ispirate ballads
come The Night's Just Right
e Closer To Heaven, ma su tutto il disco Henry
fa calare una patina che sa di forzatamente lezioso, ricercato, in fin dei conti
pretenziosamente e inutilmente schizzinoso verso qualsiasi tono un po' sopra le
righe. Restano comunque alcuni importanti episodi della sua storia come la tesa
e dylanesca I Want You #35, il gospel texano
alla Lyle Lovett di Who Do You Trust e la
baldanzosa Funky And The Farm-Boy. |
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