E' il cielo sopra
il Jersey, è quando quel cielo scivola via dalla vista, è quando
il fantasma di Teddy sta sul tetto col cuore che gli batte, e
il miglior amico di Teddy è a due isolati est, e sta facendo venire
l'ex-ragazza di Teddy, sapete vogliono ridere un po' della fiducia
di Teddy, solo per dimostrare che è un coglione, io penso siano
tutti feccia. E' la città che sguscia in una notte di sogni secchi,
la città dove niente è vero, la gravità è fottuta e le persone
- gli amici - muoiono a legioni come fossimo in guerra. E' la
guerra. E' la nuova Amsterdam degli ebrei, degli irlandesi, degli
italoamericani e della loro progenie che scappa dalla vita da
macellai kosher da gestori di bar da quattro soldi senza speranza
da poliziotti ammazzati sulla strada per abbracciare la fotografia
e Arthur Rimbaud e l'arte e il rock che racconta la poesia sudicia
di vicoli/marchette/aghi/pipe/metadone/colla. E' la città di Jody,
Evangeline e Lorraine, dei ragazzi cattolici e delle nature morte
di camere d'albergo sfasciate. Lenzuola immacolate di sperma e
sangue. Jim entra nel campo da basket ai tempi del college.
I favolosi anni '60: James Dennis Carroll (01/08/1950) onora padre
e madre irlandesi frequentando la prestigiosa Trinity School di
New York. Jim combatte la propria guerra inseguendo il canestro
- è un campione - squartandosi le vene delle braccia con tonnellate
di eroina - è un campione - scrivendo furiosamente poesie che
guardano a Baudelaire e ai beat e impressionano Warhol e Kerouac
- è un campione - vendendo il culo e succhiando cazzi per nutrire
la propria dipendenza - è un campione. Dal 1962 al 1967 New York
City è il campo da basket / di guerra di Jim Carroll. And
the traffic lights are separating me / From the nine million spirits
I love. Organic Trains, la prima raccolta poetica, piomba
sull'establishment letterario quando Jim ha 16 anni. Ted Berrigan,
Jack Kerouac e William S. Burroughs apprezzano. The Basketball
Diaries esce nel 1978. E' carne viva sbattuta sull'asfalto
e viscere sanguinolente rovesciate sulla carta e un corpo di parole
arterie suoni che geme e piange e salta per i tap-in più coreografici
visti fino ad allora.
E' la guerra del soldato Carroll e il suo primo romanzo, l'adolescenza
malinconica ed emerginata di Holden Caulfield fatta a pezzi in
un fiotto di vitalismo, scintille rabbiose e migliaia di buchi,
è la bucolica, ribelle giovinezza americana di Huckleberry Finn
sbudellata in una galleria di orrori dove nell'abiezione nascono
le speranze più vigorose, è la Dorothy della strada di mattoni
gialli che cammina all'indietro e a gambe larghe, perché lo sfintere
brucia, ma arriva ugualmente a destinazione. Hubert Selby Jr e
Il Mago di Oz in un'unica soluzione. Amore e squallore. Ascesi
e depravazione. Sussurri e grida. Altra prosa, meno urgenza: Forced
Entries - The Downtown Diaries 1971/1973 ('87) sposta l'obiettivo
dai '60 ai '70 di Ginsberg e Warhol, coi quali Jim stringe amicizia,
della convivenza con Patti Smith e Robert Mapplethorpe, di una
tossicodipendenza che riduce l'uomo (non l'artista) in uno stato
pietoso. Ma il libro, sebbene interessante, appare meccanico,
quasi risaputo nella sua orgia di celebrities dedite ad allegre
gozzoviglie, comunque ben lontano dall'allucinata, tagliente fenomenologia
di strada del predecessore. Letta oggi, quella NYC prima del flagello
dell'Aids fa quasi tenerezza. La poesia, però, brucia ancora.
Living At The Movies ('73) nasce nel momento in cui Jim si ritira
in California per disintossicarsi.
Anni di solitudine e poesia in un capolavoro elegiaco di visioni,
epifanie, ricordi e dolcezze struggenti. Gli anni delle prime
canzoni, scritte con Allan Lanier dei Blue Oyster Cult, all'epoca
compagno di Patti Smith. A San Diego millenovecentosettantotto
proprio la sacerdotessa del rock'n'roll litiga con chi dovrebbe
aprirle un concerto così annuncia, ehi, ecco a voi il tizio che
mi ha insegnato a scrivere poesia. Jim blatera qualche rap ma
bastano il carisma e i capelli biondi, gli zigomi appuntiti del
tossicomane e l'apparenza oscena della pelle che si stacca dal
corpo, la voce squillante e sopranistica che si fa gonfia fino
al singhiozzo per fissarne il carisma irresistibile - last of
the rock stars. Keith Richards approva e appena Jim raduna una
band, pescando per lo più tra i musicisti della Bay Area, ecco
pronto un contratto con la Atco. Jim, da musicista, mette insieme
lo zolfo di Jim Morrison e le sinfonie drammatiche di Roy Orbison.
Il rockabilly malato di Link Wray e il punk'n'roll depravato delle
New York Dolls. Le canzoni di Bob Dylan e la grandeur metropolitana
di Bruce Springsteen. Le zampate animalesche degli Stones e la
teatralità pervertita del primo Elvis. Il rubinetto dei dischi
si chiude presto - cinque anni circa di attività - ma basta e
avanza. Qualcosa arriva, sporadico, inaspettato, negli anni '90.
Un disco nuovo. Un ep. Collaborazioni con Rancid, Pearl Jam, John
Cale. Apparizioni in tributi a Jack Kerouac e Don Covay. Raccolte
di vecchie poesie. Dal 2000 in poi, il silenzio. Su internet gira
qualche foto. Jim peserà... quanto? 45, 50 chili?
In un certo senso si può dire che Jim sia scomparso assieme alla
sua New York, che non è quella del sindaco Rudolph Giuliani né
quella di Michael Bloomberg, ma sopravvive, forse, soltanto nei
fumetti di Daredevil scritti da Brian Michael Bendis. I suoi vecchi
amici campano come si può: David Johansen e Syl Sylvain hanno
rimesso in piedi le Bambole, Lydia Lunch continua a portare in
giro spettacoli orrendi per centri sociali, Patti Smith (in coma
da tempo) bofonchia sputacchi da Celentano. Mi piace pensare che
Jim abbia staccato la spina nel momento in cui tutti hanno creduto
che il requiem fasullo di Jay McInerney, e di tutte le braccia
rubate all'agricoltura come lui, avesse davvero spento le luci
di New York, che é città di luci ed elettricità verticale per
eccellenza. Richard Kern, Willy DeVille, Dion, Del-Lords, Martin
Scorsese, Ramones, Phil Spector, dove siete finiti? Non è Jim
che ha perso la partita. E' il campo, che è diventato troppo stretto.
L'undici settembre 2001 lo skyline di New York salta in aria.
L'undici settembre 2009, il cuore ormai disattivato, un ragazzo
cattolico di sessant'anni si accascia sulla scrivania. Jim è uscito
dal campo da basket. e.
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Catholic Boy
[Atco, 1980] 1.
Wicked Gravity // 2. Three Sisters // 3. Day And Night // 4. Nothing Is True //
5. People Who Died // 6. City Drops Into The Night // 7. Crow // 8. It's Too Late
// 9. I Want The Angel // 10. Catholic Boy |
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Una cascata di elettricità, chitarre, basso e batteria
che partono affamati e rabbiosi: comincia così, con le note travolgenti di
Wicked Gravity, quello che può essere considerato il più classico
tra i dischi del punk americano dei '70 e, come già Darkness On The Edge Of Town
di Bruce Springsteen, il più punk tra i dischi del rock americano classico dei
'70. Dieci canzoni per altrettanti proiettili che si conficcano tra il fango e
le stelle, tra l'incantesimo narrativo di un tagliente impianto folk-rock che
guarda a Bob Dylan (non a caso qualcuno parla, con ragioni da vendere, di "un
Subterranean Homesick Blues delle catacombe") e l'urgenza espressiva di un dinamismo
punk'n'roll che strizza l'occhio all'impulsività villana dei Ramones. Catholic
Boy, l'album d'esordio della Jim Carroll Band, dove accanto al
poeta e romanziere di The Basketball Diaries sfilano il basso di Steve Linsley,
il drumming di Wayne Woods e le sei corde di Terrell Winn e Brian Linsley, è un'istantanea
bruciante e senza compromessi sulle notti al neon di una città che non dorme mai
per sputare nevrosi e fallimenti, arte e ideali a ritmo ininterrotto. Il linguaggio
è quello di un rock'n'roll crudo, essenziale e loureediano in cui l'allucinato
vangelo della Patti Smith di Horses incontra il punk-rock senza fronzoli, ma con
qualche nostalgia rispetto al r'n'r anni '50, dei Mink DeVille. Produce con la
mano del veterano il padrone di casa Atco Earl McGrath, affiancato nel missaggio
dei suoni da un Bob Clearmountain in prodigioso equilibrio tra rifferama punk
e omaggi malinconici al rock'n'roll dei Little Richard, dei Johnny Burnette, dei
Gene Vincent. I brani di Catholic Boy riflettono, senza filtro alcuno, la schizofrenia
poetica dell'artista, capace di soffermarsi con tenerezza infinita sulle proprie
origini newyorchesi (ascoltate Day And Night,
rievocazione delle Ronnettes e di decine di gruppi femminili di trent'anni prima
sconquassata in un ciclone di furia rockista) e subito dopo di farle a brandelli
attraverso una micidiale centrifuga punkeggiante. Jim Carroll guarda le stelle
con l'intensità degli angeli di desolazione di Jack Kerouac, ma la sua stairway
to heaven parte inevitabilmente dai bassifondi dell'incredibile City
Drops Into The Night (con il selvaggio ululare del sax di Bobby
Keys), dal catalogo di psicosi di Three Sisters,
dai cazzotti nello stomaco di una Wicked Gravity che rappresenta più o meno la
quintessenza del rock di strada romantico e disperato. It's
Too Late, dove impazzano le tastiere horror di Allan Lanier
(BOC), pesta duro alla maniera dei Dictators, mentre il baccanale stonesiano di
Nothing Is True demolisce ogni ipotesi di
buone maniere in seno alla canzone d'autore. Impressionante l'elenco di caduti
della furiosa People Who Died, che ricorda
con collera ed affetto gli amici del musicista passati a miglior vita. La canzone
finisce pure, incredibile a dirsi, nella colonna sonora del blockbuster E.T.,
peraltro un gran film, ma non temete, qui non c'è nulla di riconducibile al mainstream.
Solo una concisa, arruffata, selvaggia serenata a New York City che resta impressa
come un marchio di fuoco sulla storia del rock e del punk americano. Per chi lo
ascolta la prima volta, una coltellata al cuore, per chi lo riprende in mano dopo
anni, una pietra miliare di suono e scrittura che non ha perso un grammo della
sua ruvida efficacia. Lo scatto di copertina porta la firma di Annie Leibovitz
e dipinge una serenità familiare resa quasi irreale dal successivo intervento
di colorazione e dai suoi cromatismi volutamente esagerati. L'unica famiglia di
Jim Carroll sembra essere quella, addolorata e sconfitta, di chi nasce e vive
nella giungla d'asfalto: "Quando entro in una chiesa i piedi delle statue sanguinano
/ Comprendo il destino dei miei nemici / Come Gesù Cristo nel giardino del Getsemani
/ Sono un ragazzo cattolico / Redento dal dolore / Non dalla gioia". |
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Dry Dreams [Atlantic, 1982]
Ancora
una volta, la foto di copertina, opera della solita Leibovitz, compie il miracolo
di riassumere tutte le suggestioni di un disco ancor più eclettico del suo predecessore.
Dry Dreams sta tutto nell'immagine che lo introduce, l'istantanea
pasoliniana di un letto (stanza d'albergo o vano privato non è dato sapere) appena
tagliato, nella parte inferiore, dalla luce dell'alba che filtra da una fenditura
non identificata. Il lenzuolo è raggrinzito, ma solo nella parte destra; il cuscino
scavato dal peso di una nuca, ma di nuovo, da una parte soltanto. Dry Dreams è
una nuova preghiera rock sulle solitudini e le sconfitte dei reietti newyorchesi,
un disco che in molti preferiscono all'esordio in virtù di sonorità ancor più
classiche e rockeggianti. Il team produttivo ed esecutivo di Catholic Boy risulta
più o meno invariato: tuttavia, a concorrere nella composizione dell'ennesimo
ritratto della disperazione delle backstreets dei 5 distretti, compaiono stavolta
le percussioni di Sammy Figueroa (che evocano consapevolmente il Lou Reed di Coney
Island Baby), la tromba di Randy Brecker (che elargisce scampoli di derelitta
malinconia metropolitana) e la sei corde immensa di Lenny Kaye, chitarrista
ufficiale della band di Patti Smith. E' di quest'ultimo il fiammeggiare di Telecaster
che rende la conclusiva Still Life ("natura
morta") una rock-song monumentale, capace di descrivere le interiora della città
con tristezza e solennità ineguagliabili. In Dry Dreams la Jim Carroll Band, meno
selvatica rispetto all'esordio, aggiunge un altro, indispensabile tassello all'epica
urbana di David Johansen, Elliott Murphy e Willie Nile: il pianoforte (Tom
Canning) diventa padrone della scena e il lirismo minimalista di Rooms
o la seconda parte della lunga, straziata Lorraine
si trasformano in pennellate elegiache sulla malinconia dei sobborghi degne del
coevo Bruce Springsteen.
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I Write Your Name [Atlantic, 1984]
Ora
che Lenny Kaye è diventato un membro effettivo del gruppo, la Jim Carroll Band
non può esimersi dal confronto diretto con Lou Reed, uno dei referenti più riconoscibili
della musica sin qui proposta. Ne esce una Sweet Jane
secca e rockinrollista, forse l'episodio più scorbutico di un album altrimenti
percorso da spastici fremiti new-wave, pieno di ottime canzoni eppure, a causa
di certe concessioni di troppo al sound "gonfio" del periodo, invecchiato meno
bene rispetto ad altre prove del titolare. Obiezione trascurabile, in ogni caso,
di fronte alla bellezza di una scaletta che fa di I Write Your Name
un altro capitolo cruciale nell'evoluzione del rock urbano degli anni '70. Tra
una Dance The Night Away che strizza l'occhio
al Tom Waits più romantico e da night-club, una (No More)
Luxuries che vomita furore punk e una Low
Rider succube d'inedite tentazioni power-pop, la vena rockista di Carroll
trova modo di esaltarsi nel ceffone stonesiano di Freddy's
Store (da qualche parte tra Keith Richards e i Pretenders) e nel pandemonio
percussivo di Voices (parente stretta di Sympathy
For The Devil). New York risplende, bella più che mai, nelle rock-ballads Hold
Back The Dream e Black Romance,
poesie grigie e affrante, popolate da fantasmi e outsiders che non smettono di
sognare un futuro dove accada qualcosa che valga la pena d'esser ricordato. |
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Dopo un
lungo silenzio, nel 1991 esce Praying Mantis, che però è un disco
contenente solo declamazioni spoken-word. Possiede comunque una sua musicalità
(occhio ai rantoli con cui Carroll intona Tiny Tortures) e andrebbe ascoltato
anche solo per l'interminabile, furibondo monologo The Loss Of American Innocence,
dove la prima masturbazione adolescenziale del protagonista scorre in parallelo
all'omicidio di JFK (!). Pools Of Mercury combina invece letture
e selvagge canzoni r'n'r architettate in compagnia di una band di immigrati dall'est-europeo
cattiva come poche: Eight Fragments For Kurt Cobain mastica versi indimenticabili,
The Beast Within sputa un rockaccio furioso e punkettone che fa impallidire molti
artisti con vent'anni di meno sulle spalle. Runaway EP è un cadeaux
inaspettato che, accanto a una devastante rilettura dell'omonimo classico di Del
Shannon, allinea un demo e tre pezzi dal vivo (con la fresca Falling Down Laughing
che non sfigura di fronte ai capolavori del passato). Carroll appare in diversi
album tributo: nell'omaggio a Jack Kerouac Kicks Joy Darkness (1997) legge
Woman accompagnato da Lee Ranaldo dei Sonic Youth, in Home Alive - The Art
Of Self Defense (1996), realizzato per sostenere un organizzazione no-profit
di Seattle che offre assistenza legale alle donne maltrattate, legge Nightclubbing
e nell'antologico Sound Bites From The Counter Culture (1990) affronta
Guitar Voodoo. Altre poesie si ritrovano nei cinque album pubblicati dal gruppo
Dial-a-poem Poets, coordinato da John Giorno, ma è tutta roba introvabile e, spesso,
inascoltabile. | |
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