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Tom Petty & The Heartbreakers
Live At The Fillmore 1997
[Warner 2022 - Box 4 Cd // 6 Lp]

Sulla rete: tompetty.com

File Under: San Francisco Nights

a cura di Marco Denti e Fabio Cerbone (20/12/2022)


American Standard 100% (di Marco Denti)

Bill Flanagan: Hai suonato in molte cover band da giovane?

Tom Petty: Sì, suonavamo solo pezzi degli altri. Cominciai a suonare per soldi a quattordici anni. Allora non interessava a nessuno sentire brani inediti e penso si ancora così. Per esempio suonavamo nel tal locale e la gente fischiava i pezzi che non conosceva, così dicevamo: “Ecco una canzone di Santana” e in realtà suonavamo un pezzo nostro. È buffo, un sacco di canzoni che mi capita di sentire nei locali oggi sono le stesse che facevamo anche noi tutte le sere. Gli Animals e i Creedence, quel genere lì. È il repertorio standard, e bisogna farlo.

Bill Flanagan: Con tutto il male che si può dire sull’eseguire pezzi degli altri, ti insegna molto se poi vuoi scrivere delle canzoni

Tom Petty: Devi farlo per forza se vuoi imparare qualcosa! Io la penso così. È l’unico modo per capire come funzionano le cose. Non riesco a immaginarne un altro. A noi ha fatto molto bene. Oggi non ne sono così sicuro perché quando le facevo io, le canzoni di successo della Top Ten e quello che passavano nelle radio AM, era tutta ottima musica. Farlo oggi non so, forse sto invecchiando ma mi sembra che potrebbe essere un’esperienza traumatica! In particolare, negli anni Settanta ci capitava di frequentare le sale degli alberghi e sentire dei gruppi suonare tutta quella musica disco e pensavamo: “Ma che cosa possiamo imparare da quella roba?”. Noi siamo cresciuti in un momento in cui la musica era davvero ricca e buona e abbiamo cercato di farla a modo nostro, senza copiare gli altri. Tutto si mescola e così viene fuori qualcosa di tuo.

Il genius loci, lo spirito del luogo del Fillmore non fa che risaltare la logica emersa nel dialogo tra Tom Petty e Bill Flanagan in Scritto nell’anima (Arcana, 1987), un’identità costruita da piccoli tasselli collocati uno dopo l’altro nel corso dell’esperienza maturata nei bassifondi. Una composizione fittissima, come ben sappiamo, ma che le serate al Fillmore hanno avuto il compito di decifrare con cura: gli ingredienti dell’alchimia di Tom Petty sono venuti così a galla ma (incredibile a dirsi) nonostante l’indiscutibile ricchezza dei contenuti del Fillmore non ci sono tutti. Alcune sfumature, quelle più pop e psichedeliche, giusto per pescarne un paio, così come certe eccentricità, sono state sacrificate agli standard e alla loro rivisitazione. Di gran classe, ma non priva di una sottilissima cornice di formalità. C’è un senso in tutto ciò, ed è la necessità, per Tom Petty, di sentirsi parte di un vocabolario in cui addentrarsi per tramandarlo di generazione in generazione. Con lui, gli Heartbreakers, una vera rock’n’roll band, che è sempre più della somma dell’insieme dei musicisti, si sono rivelati funzionali allo scopo per la versatilità e per l’efficienza sonora, ma anche per essere stati protagonisti e complici del songwriting di Tom Petty. Nel confronto tra i classici e le sue canzoni, spicca un canone tutto americano del rock’n’roll e qui il Fillmore è proprio il luogo giusto per collocare uno dei suoi più grandi interpreti di sempre.

Live at the Fillmore, 1997 (di Fabio Cerbone)

La pubblicazione di Live at the Fillmore 1997 è l’occasione per decifrare, attraverso la sua ricchissima scaletta (quadruplo cd oppure sestuplo vinile, nell’edizione deluxe più completa), la mappa di una grande avventura. Racconta, come se ci trovassimo a una festa privata tra amici esclusivi degli Heartbreakers, di un’autentica “american band”, forse l’ultima nel suo genere, che più di altre ha saputo sintetizzare il linguaggio e i codici di intesa di quello che ci ostiniamo a chiamare rock’n’roll, con l’accento sul “roll” come ci terrebbe a dire Keith Richards, seguendo un filo rosso di canzoni, personaggi, ruoli, stili e sonorità in cui immedesimarsi con un atto di assoluta fede e abbandono.

Una sorta di grande, definitivo romanzo musicale: nascita, crescita e apogeo che potremmo idealmente dividere in macro-capitoli e relative sottosezioni, le quali rappresentano in ultima analisi le identità che gli Heartbreakers assumono su di sé e che Tom Petty, nei panni del cappellaio matto (quello che a un certo punto impersonò davvero nel video di Don’t Come Around Here No More...), conduce attraverso i decenni e i cambi di forma, sottolineati da riff di chitarra, melodie killer e jam assortite. Sono gli anni che portano dall’originaria Gainsville, Florida dritti alla California, partenza e approdo, dalle cantine giù nel paludoso Sud ai boulevard di Los Angeles e alle colline di Hollywood, e infine lassù, in cima allo stardom, che Tom Petty e gli Heartbreakers hanno sempre consumato con un atteggiamento da outsider, invitati fuori posto che tuttavia se la sono goduta fino in fondo.

Nell’epopea di questo lungo viaggio, che al Fillmore di San Francisco tocca forse un momento di condivisione e complicità irripetibile (ciò che fa dire a Tom Petty in persona: “We all feel this might be the highpoint of our time together as a group”), prima che la band cominciasse a perdere pezzi importanti (la tragica scomparsa di Howie Epstein) e Petty stesso sentisse addensarsi ombre e ripensamenti (un matrimonio fallito, l’eroina, la lenta risalita, ma quel dolore mai scacciato del tutto), le singole canzoni (cinquantotto) sono luoghi immaginari di una carta geografica del rock’n’roll. Abbiamo provato a ripercorrerla, riscostruendo un cammino di influenze, omaggi e interpretazioni che Live at the Fillmore 1997 mischia come un mazzo di carte, ma nel quale è possibile scorgere in filigrana le fondamenta della casa costruita da Tom Petty & The Heartbreakers.

Vintage Poster, Fillmore Auditorium 1997 - © Jim Phillips
www.wolfgangs.com/posters/tom-petty-and-the-heartbreakers/

Roots of my raising
Le radici sono importanti: ti ricordano da dove sei venuto e, con le loro innumerevoli biforcazioni nel terreno, forse ti diranno anche dove volgerai lo sguardo. L’importante è che non diventino una prigione, la scusa per restare fermi. Tom Petty & The Heartbreakers non sono rimasti in Florida, anche se il fango dei Mudcrutch, il primo nucleo di quello che sarebbe stata la band futura, “sporca” con la sua ispirazione southern roots alcune interpretazioni del Live at the Fillmore. Si parte da lontano, dalla campagna intorno a Gainsville, da un canto da bivacco intorno al fuoco, quasi un’infanzia rubata per Tom Petty, che intona all’armonica la melodia di You Are My Sunshine della Carter Family. Potremmo subito affiancargli il bluegrass di Little Maggie, a firma Ralph Stanley (Stanley Brothers), che chiama alla voce solista Howie Epstein (eccezionale il suo contributo armonico, a ricordarne l’enorme perdita per il gruppo), mentre il resto scambia le radici di cui sopra, dal bianco al nero.

È il blues, infatti, il vero seme degli Heartbreakers (lo avrebbero fatto capire anche in anni recenti, attraverso un album come Mojo) e qui c’è l’imbarazzo della scelta: dall’essenza di Guitar Boogie Shuffle al ritmo di Diddy Wah Diddy (Bo Diddley) fino alla comparsa in carne e ossa di John Lee Hooker sul palco del Fillmore, per condividere Find My Baby (Locked Up In Love Again) e soprattutto i classici Serves You Right To Suffer e Boogie Chillen, dove la macchina degli Heartbreakers aumenta i giri del motore e ci porta in un club infervorato e fumoso di Detroit. E dopo il blues, da cui tutto parte, non poteva che esserci l’evoluzione parallela del soul, di quella black music che ipnotizzerà i ragazzi bianchi del sud come Tom Petty, qui pronto a riscoprire Ray Charles (I Got a Woman) e Bill Withers (Ain't No Sunshine).

His Bobness
L’ultima, vera “radice” inestirpabile però resta quella di Bob Dylan, per Tom Petty così come per qualsiasi songwriter che negli ultimi cinquant’anni abbia voluto unire rock e pensiero, chitarre e scrittura. Avendolo conosciuto da vicino, un’amicizia artistica che è diventata una condivisione del palco (il tour con gli Heartbreakers di spalla nel 1987), delle canzoni (Jammin’ Me) e dei dischi (con il divertente progetto dei Traveling Wilburys) pare del tutto inevitabile che anche nella scaletta del Fillmore ci fosse un pensiero rivolto a sua maestà. Evidentemente l’ombra di Bob è troppo grande e scomoda per non oscurare anche Tom Petty, che si limita a una prosaica Knockin’ On Heaven’s Door, mille volte sentita e rifatta e altrettante rimasta identica a se stessa, un mistero più che una canzone, che probabilmente soltanto l’autore stesso e le immagini di Sam Peckinpah possono davvero restituire in tutta la sua potenza lirica.

Rock’n’roll fever
La visione di Elvis che ancheggia all’Ed Sullvan Show sarà la sacra rivelazione dell’infanzia di Tom Petty, come di altri milioni di ragazzini americani. Ma quel battito Elvis lo aveva “rubato” dai cosiddetti race records che le radio di Memphis trasmettevano giorno e notte. Il rock’n’roll dei Fifties è la liberazione del corpo e dell’anima, la miccia che ha acceso tutta la casa, e gli Heartbreakers hanno studiato sui libri migliori, mandando a memoria ritmi, passaggi, fuochi pirotecnici, con la chitarra di Mike Campbell (ma quella dello stesso Petty non andrebbe mai trascurata) e il piano di Benmont Tench che ringraziano per la lezione impartita, rispettivamente, dai maestri Chuck Berry (Around and Around e Johnny B. Goode) e Little Richard (Lucille e Rip It Up). Questa volta il blues ha fatto un salto quantico, assomiglia al passato eppure non è esattamente la stessa cosa (ce lo confermano anche le versioni di High Heel Sneakers di Tommy Tucker e Louie Louie di Richard Berry), è nata una nuova eccitazione, quella che anche i bianchi possono liberare nell’etere come ribelli senza causa o semplici predatori. Ecco perché Tom Petty e tutta la banda non si scordano di un classico d’oltreoceano come Shakin' All Over di Johnny Kidd & The Pirates o del Ricky Nelson imberbe di Waitin' in School.

Laid back with J.J.
Il pigro e quieto vivere del Sud Tom Petty non lo dimentica mai, anche quando è seduto sul tetto del mondo, dal viale delle stelle di Los Angeles. E chi se non J.J. Cale e la sua musica possono ricordaglielo? Un amore sempre dichiarato quello degli Heartbreakers per quel suono inimitabile, che fonde languori southern blues e campagna country rock (ben tre brani in scaletta al Fillmore, Call Me the Breeze, I’d Like To Love You Baby e Crazy Mama, bastano e avanzano per dimostrarlo). Tanto più che Cale se lo ritroveranno subito tra i piedi, agli albori della loro carriera, come compagno di avventure nella Shelter records di Leon Russell e Denny Cordell, la stessa etichetta che metterà sotto contratto i giovani e inesperti Mudcrutch (Depot Street fu l’unico singolo ufficiale della band) e deciderà poi di lanciare definitivamente la carriera di quel biondino della Florida con una rinnovata formazione alle sue spalle.

Surfin’ & jammin’ in USA
Il gioco di intesa, gli sguardi e anche i trucchi del mestiere, che si imparano con gli anni, dettano le regole di una rock’n’roll band che con il tempo impara a conoscersi e persino a sopportarsi. Solo un grande gruppo però, che non trascura il punto di partenza, può continuare a coltivare la sorpresa della prima scoperta, quella alleanza strumentale che nel caso degli Heartbreakers li ha resi solidissimi, professionali, ma mai distanti dal puro piacere della jam. E’ così che sul palco del Fillmore si improvvisa dal nulla l’Heartbreakers Beach Party, oppure si rispolverano gli amori surf mai nascosti di Mike Campbell e Benmont Tench (qualcuno li ricorda i Blue Stingrays? Progetto estemporaneo in libera uscita dalla ditta principale), da cui spunta la rilettura del tema di Goldfinger o quello del musical di Broadway, Slaughter on Tenth Avenue, mentre a confermare quel patto non scritto per il suono d’insieme, sezione ritmica, chitarre, piano e organo a rintuzzarsi nel nome del groove, ci sono altri eroi tributati più volte, Booker T. & M.G.’s (Green Onions e Hip Hugger). Come a dire che se questi ultimi erano stati la band strumentale per eccellenza nell’accompagnare le leggende del southern soul, gli Heartbfreakers in quegli anni lo saranno altrettanto per gli American recordings di Johnny Cash.

British invasion
Che Tom Petty e gli Heartbreakers abbiano rappresentato, da un certo punto in avanti, il prototipo della perfetta rock band americana, passato, presente e futuro in una sola formula, non deve distogliere lo sguardo dalle loro manifeste, inconfondibili radici inglesi. Una parte importante del sound e della scrittura di Petty arriva proprio da quel ritmo e da quelle melodie, insomma dalla rilettura che la British Invasion ha fatto dell’american music di partenza (e qui ci sono le cover delle cover degli Stones ad autenticarlo, come Time Is on My Side e It's All Over Now). Una restituzione importante che dalla metà degli anni Sessanta è magicamente rientrata in circolo negli States, solleticando la fantasia di centinaia di garage band. Il suono nervoso e scintillante dei primi Heartbreakers, che un po’ sarà confuso e mischiato con la “nuova onda” del punk, proviene esattamente da lì, come ci ricordano le presenze nella lista del Fillmore di Gloria (i Them di Van Morrison), di You Really Got Me (Kinks) o della piccola gemma I Want You Back Again (Zombies). Ci sarebbero stati alla perfezione anche gli Animals (come accadde a suo tempo in un altro album dal vivo, Pack Up the Plantation, con Don't Bring Me Down), ma al Fillmore bastano e avanzano i Rolling Stones (ancora loro) con (I Can't Get No) Satisfaction.

California dreamin’
California is been good to me, cantava Tom Petty. E nell’Eldorado americano non solo ha trovato la sua nuova casa, una famiglia, le migliori canzoni e naturalmenre una vita da rockstar, lui che era stato un adolescente irrequieto della Florida, ma anche quell’ambiente musicale e quelle ispirazioni nobili che hanno sempre alimentato il fuoco della sua scrittura. Nel Live at The Fillmore ci sono tutte le prove di questo amore ricambiato, a cominciare da quei Byrds che sono stati, fin dalle prime note della hit American Girl esplose alla radio, il suo punto di riferimento sonoro e un costante metro di paragone. Non a caso l’altro illustre ospite di queste serate al Fillmore è proprio Roger McGuinn, invitato a unirsi agli Heartbreakers per un convincente set che decolla sulle note di It Won't Be Wrong, vola nei cieli astrali e psichedelici di Eight Miles High e plana sui campi di quella piccola rivoluzione country rock (e qui andrebbe citato anche lo spirito Gram Parsons) che fa germogliare You Ain't Goin' Nowhere (per gentile concessione di Bob Dylan) e Drug Store Truck Drivin’ Man.

È la California delle irripetibili comunità artistiche del Laurel Canyon e di Haight Ashbury che Tom Petty sembra omaggiare nello spirito, anche quando riprende il percorso dei Grateful Dead più agresti di Friend of the Devil, in una versione dimessa e più vicina al cuore del folk rock. A voler essere puntigliosi, per completare davvero questi brillanti colori californiani, mancherebbero all’appello soltanto i Beach Boys di Brian Wilson (un’altra grande ossessione melodica di Petty) e i Creedence Clearwater Revival di John Fogerty (per il drive più serrato e rock’n’roll che ha sostenuto spesso gli Heartbreakers). Sarà per un’altra occasione.

Hits and misses
L’obiettivo dichiarato di Live at the Fillmore è quello di catturare un momento irripetibile nello spazio e nel tempo di un rock’n’roll band, non necessariamente il migliore o il più rappresentativo (per quello Tom Petty ci aveva già provato con The Live Abthology). Sintesi di venti serate consecutive nel locale di San Francisco, tra il gennaio e il febbraio del 1997, queste incisioni hanno un sapore più domestico, un’interazione con il pubblico che implica una premessa: prima di tutto ci dobbiamo divertire noi, Tom e gli Heartbreakers, tutto il resto arriverà naturalmente. Per questo motivo più di trenta delle cinquattotto canzoni totali sono omaggi al genio altrui, così come la band lo ha saputo fare proprio, ma sarebbe un grave errore non sottolineare quanto Tom Petty & The Heartbreakers cambino letteralmente marcia, convinzione e suono in un corpo solo, quando riprendono in mano il loro repertorio.

Qui la differenza non è una questione di gusti, semmai il risultato dell’alchimia dei musicisti (e andrebbero citati tutti, mancavano ancora all’appello Steve Ferrone, un batterista incredibile e salvifico in quegli anni per la band, e l’abile tuttofare Scott Thurston), la stessa alchimia che esplode letteralmente in Jammin' Me (un classico ritrovato, oggi possiamo dirlo), Runnin' Down a Dream (il riff per eccellenza di Mike Campbell, solo compreso) e Free Fallin' (una canzone che è diventata perfetta). Il carattere particolare di queste esibizioni permette inoltre a Tom Petty di lasciar “scivolare” via alcune canzoni che altri avrebbero invece reso un’apoteosi: così preferisce offrire una visione basilare e acustica di I Won't Back Down, Even the Losers e persino di American Girl, forse per fare emergere il peso del songwriter.

Poi c'è soltanto il tempo di concentrarsi sugli ultimi arrivati: siamo nel 1997, e Tom sembra tenere particolarmente agli “scarti” di She’s The One, uno di quei passaggi in apparenza minori nella carriera di un musicista che acquistano senso con il passare del tempo. Altrimenti non si spiegherebbe la trasparenza melodica e la bellezza di brani quali California, Walls o Angel Dream, qui interpretate con un tono intimo, che sembra abbassare le difese dell’artista. Ed è ancora forte in quel momento anche l’eco di Wildflowers, un album che al Fillmore viene saccheggiato in lungo e in largo, calcando la mano, gioco forza, sugli episodi più elettrici e calzanti per gli Heartbreakers al completo, da Cabin Down Below a Honey Bee e You Wreck Me (una triade che è una autentica lezione di american rock’n’roll), sebbene la lunga coda di It's Good to Be King, canzone e relativa melodia reimmaginate e ampliate il più possibile, resti ancora il vertice di tutto quel periodo. Anzi no, per la vera estasi degli Heartbreakers, chitarre comprese, ci sono in serbo i dieci minuti siderali di Mary Jane's Last Dance: una ballata rock talmente classica che soltanto Tom Petty (e forse il suo maestro Bob Dylan, dal quale avrà imparato certamente il vizio) poteva permettersi di pubblicarla come una “banale” outtake di un’antologia.


    



<Credits>