a cura di Marco Denti e Fabio Cerbone (20/12/2022)
American
Standard 100% (di
Marco Denti)
Bill Flanagan: Hai suonato
in molte cover band da giovane?
Tom Petty: Sì, suonavamo solo pezzi degli altri. Cominciai a suonare
per soldi a quattordici anni. Allora non interessava a nessuno sentire
brani inediti e penso si ancora così. Per esempio suonavamo nel tal
locale e la gente fischiava i pezzi che non conosceva, così dicevamo:
“Ecco una canzone di Santana” e in realtà suonavamo un pezzo nostro.
È buffo, un sacco di canzoni che mi capita di sentire nei locali oggi
sono le stesse che facevamo anche noi tutte le sere. Gli Animals e i
Creedence, quel genere lì. È il repertorio standard, e bisogna farlo.
Bill Flanagan: Con tutto il male che si può dire sull’eseguire pezzi
degli altri, ti insegna molto se poi vuoi scrivere delle canzoni
Tom Petty: Devi farlo per forza se vuoi imparare qualcosa! Io la penso
così. È l’unico modo per capire come funzionano le cose. Non riesco
a immaginarne un altro. A noi ha fatto molto bene. Oggi non ne sono
così sicuro perché quando le facevo io, le canzoni di successo della
Top Ten e quello che passavano nelle radio AM, era tutta ottima musica.
Farlo oggi non so, forse sto invecchiando ma mi sembra che potrebbe
essere un’esperienza traumatica! In particolare, negli anni Settanta
ci capitava di frequentare le sale degli alberghi e sentire dei gruppi
suonare tutta quella musica disco e pensavamo: “Ma che cosa possiamo
imparare da quella roba?”. Noi siamo cresciuti in un momento in cui
la musica era davvero ricca e buona e abbiamo cercato di farla a modo
nostro, senza copiare gli altri. Tutto si mescola e così viene fuori
qualcosa di tuo.
Il genius loci, lo spirito del luogo del Fillmore non fa che risaltare
la logica emersa nel dialogo tra Tom Petty e Bill Flanagan in Scritto
nell’anima (Arcana, 1987), un’identità costruita da piccoli tasselli
collocati uno dopo l’altro nel corso dell’esperienza maturata nei bassifondi.
Una composizione fittissima, come ben sappiamo, ma che le serate al
Fillmore hanno avuto il compito di decifrare con cura: gli ingredienti
dell’alchimia di Tom Petty sono venuti così a galla ma (incredibile
a dirsi) nonostante l’indiscutibile ricchezza dei contenuti del Fillmore
non ci sono tutti. Alcune sfumature, quelle più pop e psichedeliche,
giusto per pescarne un paio, così come certe eccentricità, sono state
sacrificate agli standard e alla loro rivisitazione. Di gran classe,
ma non priva di una sottilissima cornice di formalità. C’è un senso
in tutto ciò, ed è la necessità, per Tom Petty, di sentirsi parte di
un vocabolario in cui addentrarsi per tramandarlo di generazione in
generazione. Con lui, gli Heartbreakers, una vera rock’n’roll band,
che è sempre più della somma dell’insieme dei musicisti, si sono rivelati
funzionali allo scopo per la versatilità e per l’efficienza sonora,
ma anche per essere stati protagonisti e complici del songwriting di
Tom Petty. Nel confronto tra i classici e le sue canzoni, spicca un
canone tutto americano del rock’n’roll e qui il Fillmore è proprio il
luogo giusto per collocare uno dei suoi più grandi interpreti di sempre.
Live
at the Fillmore, 1997 (di
Fabio Cerbone)
La pubblicazione di Live
at the Fillmore 1997 è l’occasione per decifrare, attraverso la
sua ricchissima scaletta (quadruplo cd oppure sestuplo vinile, nell’edizione
deluxe più completa), la mappa di una grande avventura. Racconta, come
se ci trovassimo a una festa privata tra amici esclusivi degli Heartbreakers,
di un’autentica “american band”, forse l’ultima nel suo genere, che
più di altre ha saputo sintetizzare il linguaggio e i codici di intesa
di quello che ci ostiniamo a chiamare rock’n’roll, con l’accento sul
“roll” come ci terrebbe a dire Keith Richards, seguendo un filo rosso
di canzoni, personaggi, ruoli, stili e sonorità in cui immedesimarsi
con un atto di assoluta fede e abbandono.
Una sorta di grande, definitivo romanzo musicale: nascita, crescita
e apogeo che potremmo idealmente dividere in macro-capitoli e relative
sottosezioni, le quali rappresentano in ultima analisi le identità che
gli Heartbreakers assumono su di sé e che Tom Petty, nei panni
del cappellaio matto (quello che a un certo punto impersonò davvero
nel video di Don’t Come Around Here No More...), conduce attraverso
i decenni e i cambi di forma, sottolineati da riff di chitarra, melodie
killer e jam assortite. Sono gli anni che portano dall’originaria Gainsville,
Florida dritti alla California, partenza e approdo, dalle cantine giù
nel paludoso Sud ai boulevard di Los Angeles e alle colline di Hollywood,
e infine lassù, in cima allo stardom, che Tom Petty e gli Heartbreakers
hanno sempre consumato con un atteggiamento da outsider, invitati fuori
posto che tuttavia se la sono goduta fino in fondo.
Nell’epopea di questo lungo viaggio, che al Fillmore di San Francisco
tocca forse un momento di condivisione e complicità irripetibile (ciò
che fa dire a Tom Petty in persona: “We all feel this might be the
highpoint of our time together as a group”), prima che la band cominciasse
a perdere pezzi importanti (la tragica scomparsa di Howie Epstein) e
Petty stesso sentisse addensarsi ombre e ripensamenti (un matrimonio
fallito, l’eroina, la lenta risalita, ma quel dolore mai scacciato del
tutto), le singole canzoni (cinquantotto) sono luoghi immaginari di
una carta geografica del rock’n’roll. Abbiamo provato a ripercorrerla,
riscostruendo un cammino di influenze, omaggi e interpretazioni che
Live at the Fillmore 1997 mischia come un mazzo di carte, ma
nel quale è possibile scorgere in filigrana le fondamenta della casa
costruita da Tom Petty & The Heartbreakers.
Roots of my
raising
Le radici sono importanti: ti ricordano da dove sei venuto e, con le
loro innumerevoli biforcazioni nel terreno, forse ti diranno anche dove
volgerai lo sguardo. L’importante è che non diventino una prigione,
la scusa per restare fermi. Tom Petty & The Heartbreakers non sono rimasti
in Florida, anche se il fango dei Mudcrutch, il primo nucleo di quello
che sarebbe stata la band futura, “sporca” con la sua ispirazione southern
roots alcune interpretazioni del Live at the Fillmore. Si parte da lontano,
dalla campagna intorno a Gainsville, da un canto da bivacco intorno
al fuoco, quasi un’infanzia rubata per Tom Petty, che intona all’armonica
la melodia di You Are My Sunshine della Carter Family. Potremmo
subito affiancargli il bluegrass di Little
Maggie, a firma Ralph Stanley (Stanley Brothers), che chiama
alla voce solista Howie Epstein (eccezionale il suo contributo
armonico, a ricordarne l’enorme perdita per il gruppo), mentre il resto
scambia le radici di cui sopra, dal bianco al nero.
È il blues, infatti, il vero seme degli Heartbreakers (lo avrebbero
fatto capire anche in anni recenti, attraverso un album come Mojo)
e qui c’è l’imbarazzo della scelta: dall’essenza di Guitar Boogie
Shuffle al ritmo di Diddy Wah Diddy
(Bo Diddley) fino alla comparsa in carne e ossa di John Lee Hooker
sul palco del Fillmore, per condividere Find My Baby (Locked Up In
Love Again) e soprattutto i classici Serves
You Right To Suffer e Boogie Chillen,
dove la macchina degli Heartbreakers aumenta i giri del motore e ci
porta in un club infervorato e fumoso di Detroit. E dopo il blues, da
cui tutto parte, non poteva che esserci l’evoluzione parallela del soul,
di quella black music che ipnotizzerà i ragazzi bianchi del sud come
Tom Petty, qui pronto a riscoprire Ray Charles (I
Got a Woman) e Bill Withers (Ain't
No Sunshine).
His Bobness
L’ultima, vera “radice” inestirpabile però resta quella di Bob Dylan,
per Tom Petty così come per qualsiasi songwriter che negli ultimi cinquant’anni
abbia voluto unire rock e pensiero, chitarre e scrittura. Avendolo conosciuto
da vicino, un’amicizia artistica che è diventata una condivisione del
palco (il tour con gli Heartbreakers di spalla nel 1987), delle canzoni
(Jammin’ Me) e dei dischi (con il divertente progetto dei Traveling
Wilburys) pare del tutto inevitabile che anche nella scaletta del Fillmore
ci fosse un pensiero rivolto a sua maestà. Evidentemente l’ombra
di Bob è troppo grande e scomoda per non oscurare anche Tom Petty, che
si limita a una prosaica Knockin’ On Heaven’s
Door, mille volte sentita e rifatta e altrettante rimasta
identica a se stessa, un mistero più che una canzone, che probabilmente
soltanto l’autore stesso e le immagini di Sam Peckinpah possono davvero
restituire in tutta la sua potenza lirica.
Rock’n’roll
fever
La visione di Elvis che ancheggia all’Ed Sullvan Show sarà la sacra
rivelazione dell’infanzia di Tom Petty, come di altri milioni di ragazzini
americani. Ma quel battito Elvis lo aveva “rubato” dai cosiddetti race
records che le radio di Memphis trasmettevano giorno e notte. Il
rock’n’roll dei Fifties è la liberazione del corpo e dell’anima, la
miccia che ha acceso tutta la casa, e gli Heartbreakers hanno studiato
sui libri migliori, mandando a memoria ritmi, passaggi, fuochi pirotecnici,
con la chitarra di Mike Campbell (ma quella dello stesso Petty non andrebbe
mai trascurata) e il piano di Benmont Tench che ringraziano per la lezione
impartita, rispettivamente, dai maestri Chuck Berry (Around
and Around e Johnny B. Goode)
e Little Richard (Lucille e
Rip It Up). Questa volta il blues ha fatto un salto quantico,
assomiglia al passato eppure non è esattamente la stessa cosa (ce lo
confermano anche le versioni di High Heel Sneakers di Tommy Tucker
e Louie Louie di Richard Berry), è nata una nuova eccitazione,
quella che anche i bianchi possono liberare nell’etere come ribelli
senza causa o semplici predatori. Ecco perché Tom Petty e tutta
la banda non si scordano di un classico d’oltreoceano come Shakin'
All Over di Johnny Kidd & The Pirates o del Ricky Nelson
imberbe di Waitin' in School.
Laid back with
J.J.
Il pigro e quieto vivere del Sud Tom Petty non lo dimentica mai, anche
quando è seduto sul tetto del mondo, dal viale delle stelle di Los Angeles.
E chi se non J.J. Cale e la sua musica possono ricordaglielo? Un amore
sempre dichiarato quello degli Heartbreakers per quel suono inimitabile,
che fonde languori southern blues e campagna country rock (ben tre brani
in scaletta al Fillmore, Call Me the Breeze,
I’d Like To Love You Baby e Crazy Mama, bastano e avanzano
per dimostrarlo). Tanto più che Cale se lo ritroveranno subito tra i
piedi, agli albori della loro carriera, come compagno di avventure nella
Shelter records di Leon Russell e Denny Cordell, la stessa etichetta
che metterà sotto contratto i giovani e inesperti Mudcrutch (Depot
Street fu l’unico singolo ufficiale della band) e deciderà poi di
lanciare definitivamente la carriera di quel biondino della Florida
con una rinnovata formazione alle sue spalle.
Surfin’ & jammin’
in USA
Il gioco di intesa, gli sguardi e anche i trucchi del mestiere, che
si imparano con gli anni, dettano le regole di una rock’n’roll band
che con il tempo impara a conoscersi e persino a sopportarsi. Solo un
grande gruppo però, che non trascura il punto di partenza, può continuare
a coltivare la sorpresa della prima scoperta, quella alleanza strumentale
che nel caso degli Heartbreakers li ha resi solidissimi, professionali,
ma mai distanti dal puro piacere della jam. E’ così che sul palco del
Fillmore si improvvisa dal nulla l’Heartbreakers Beach Party,
oppure si rispolverano gli amori surf mai nascosti di Mike Campbell
e Benmont Tench (qualcuno li ricorda i Blue Stingrays? Progetto estemporaneo
in libera uscita dalla ditta principale), da cui spunta la rilettura
del tema di Goldfinger o quello
del musical di Broadway, Slaughter on Tenth Avenue, mentre a
confermare quel patto non scritto per il suono d’insieme, sezione ritmica,
chitarre, piano e organo a rintuzzarsi nel nome del groove, ci sono
altri eroi tributati più volte, Booker T. & M.G.’s (Green
Onions e Hip Hugger). Come a dire che se questi ultimi
erano stati la band strumentale per eccellenza nell’accompagnare le
leggende del southern soul, gli Heartbfreakers in quegli anni lo saranno
altrettanto per gli American recordings di Johnny Cash.
British invasion
Che Tom Petty e gli Heartbreakers abbiano rappresentato, da un certo
punto in avanti, il prototipo della perfetta rock band americana, passato,
presente e futuro in una sola formula, non deve distogliere lo sguardo
dalle loro manifeste, inconfondibili radici inglesi. Una parte importante
del sound e della scrittura di Petty arriva proprio da quel ritmo e
da quelle melodie, insomma dalla rilettura che la British Invasion
ha fatto dell’american music di partenza (e qui ci sono le cover
delle cover degli Stones ad autenticarlo, come Time Is on My Side
e It's All Over Now). Una restituzione importante che dalla metà
degli anni Sessanta è magicamente rientrata in circolo negli States,
solleticando la fantasia di centinaia di garage band. Il suono nervoso
e scintillante dei primi Heartbreakers, che un po’ sarà confuso
e mischiato con la “nuova onda” del punk, proviene esattamente da lì,
come ci ricordano le presenze nella lista del Fillmore di Gloria
(i Them di Van Morrison), di You Really Got
Me (Kinks) o della piccola gemma
I Want You Back Again (Zombies). Ci sarebbero stati alla
perfezione anche gli Animals (come accadde a suo tempo in un altro album
dal vivo, Pack Up the Plantation, con Don't Bring Me Down),
ma al Fillmore bastano e avanzano i Rolling Stones (ancora loro) con
(I Can't Get No) Satisfaction.
California
dreamin’ California is been good to me, cantava Tom Petty. E nell’Eldorado
americano non solo ha trovato la sua nuova casa, una famiglia, le migliori
canzoni e naturalmenre una vita da rockstar, lui che era stato un adolescente
irrequieto della Florida, ma anche quell’ambiente musicale e quelle
ispirazioni nobili che hanno sempre alimentato il fuoco della sua scrittura.
Nel Live at The Fillmore ci sono tutte le prove di questo amore
ricambiato, a cominciare da quei Byrds che sono stati, fin dalle prime
note della hit American Girl esplose alla radio, il suo punto
di riferimento sonoro e un costante metro di paragone. Non a caso l’altro
illustre ospite di queste serate al Fillmore è proprio Roger McGuinn,
invitato a unirsi agli Heartbreakers per un convincente set che decolla
sulle note di It Won't Be Wrong,
vola nei cieli astrali e psichedelici di Eight
Miles High e plana sui campi di quella piccola rivoluzione
country rock (e qui andrebbe citato anche lo spirito Gram Parsons) che
fa germogliare You Ain't Goin' Nowhere (per gentile concessione
di Bob Dylan) e Drug Store Truck Drivin’ Man.
È la California delle irripetibili comunità artistiche del Laurel Canyon
e di Haight Ashbury che Tom Petty sembra omaggiare nello spirito, anche
quando riprende il percorso dei Grateful Dead più agresti di Friend
of the Devil, in una versione dimessa e più vicina al cuore
del folk rock. A voler essere puntigliosi, per completare davvero questi
brillanti colori californiani, mancherebbero all’appello soltanto i
Beach Boys di Brian Wilson (un’altra grande ossessione melodica di Petty)
e i Creedence Clearwater Revival di John Fogerty (per il drive più serrato
e rock’n’roll che ha sostenuto spesso gli Heartbreakers). Sarà per un’altra
occasione.
Hits and misses
L’obiettivo dichiarato di Live at the Fillmore è quello di catturare
un momento irripetibile nello spazio e nel tempo di un rock’n’roll band,
non necessariamente il migliore o il più rappresentativo (per quello
Tom Petty ci aveva già provato con The
Live Abthology). Sintesi di venti serate consecutive nel
locale di San Francisco, tra il gennaio e il febbraio del 1997, queste
incisioni hanno un sapore più domestico, un’interazione con il pubblico
che implica una premessa: prima di tutto ci dobbiamo divertire noi,
Tom e gli Heartbreakers, tutto il resto arriverà naturalmente. Per questo
motivo più di trenta delle cinquattotto canzoni totali sono omaggi al
genio altrui, così come la band lo ha saputo fare proprio, ma sarebbe
un grave errore non sottolineare quanto Tom Petty & The Heartbreakers
cambino letteralmente marcia, convinzione e suono in un corpo solo,
quando riprendono in mano il loro repertorio.
Qui la differenza non è una questione di gusti, semmai il risultato
dell’alchimia dei musicisti (e andrebbero citati tutti, mancavano ancora
all’appello Steve Ferrone, un batterista incredibile e salvifico in
quegli anni per la band, e l’abile tuttofare Scott Thurston), la stessa
alchimia che esplode letteralmente in Jammin'
Me (un classico ritrovato, oggi possiamo dirlo), Runnin'
Down a Dream (il riff per eccellenza di Mike Campbell, solo
compreso) e Free Fallin' (una canzone
che è diventata perfetta). Il carattere particolare di queste esibizioni
permette inoltre a Tom Petty di lasciar “scivolare” via alcune canzoni
che altri avrebbero invece reso un’apoteosi: così preferisce offrire
una visione basilare e acustica di I Won't Back Down, Even
the Losers e persino di American Girl, forse per fare emergere
il peso del songwriter.
Poi c'è soltanto il tempo di concentrarsi sugli ultimi arrivati:
siamo nel 1997, e Tom sembra tenere particolarmente agli “scarti” di
She’s The One, uno di quei passaggi in apparenza minori nella
carriera di un musicista che acquistano senso con il passare del tempo.
Altrimenti non si spiegherebbe la trasparenza melodica e la bellezza
di brani quali California, Walls
o Angel Dream, qui interpretate con un tono intimo, che sembra
abbassare le difese dell’artista. Ed è ancora forte in quel momento
anche l’eco di Wildflowers, un album che al Fillmore viene saccheggiato
in lungo e in largo, calcando la mano, gioco forza, sugli episodi più
elettrici e calzanti per gli Heartbreakers al completo, da Cabin
Down Below a Honey Bee e You Wreck
Me (una triade che è una autentica lezione di american rock’n’roll),
sebbene la lunga coda di It's Good to Be King,
canzone e relativa melodia reimmaginate e ampliate il più possibile,
resti ancora il vertice di tutto quel periodo. Anzi no, per la vera
estasi degli Heartbreakers, chitarre comprese, ci sono in serbo i dieci
minuti siderali di Mary Jane's Last Dance:
una ballata rock talmente classica che soltanto Tom Petty (e forse il
suo maestro Bob Dylan, dal quale avrà imparato certamente il vizio)
poteva permettersi di pubblicarla come una “banale” outtake di un’antologia.