Tom Petty & The Heartbreakers
Damn The Torpedoes
(Deluxe edition)
[MCA/ Universal 2CD  2010]



L'ammiraglio della Guerra Civile americana David Farragut lancia il grido di battaglia sulla baia di Mobile, Alabama: "Damn the torpedoes, full speed ahead!". Anche gli Heartbreakers alzano i vessilli e si lanciano alla conquista del mondo con il loro primo disco di platino: Damn The Torpedoes rappresenterà il loro indiscusso capolavoro nonché l'album che trasformerà il leader Tom Petty in una rockstar di prima grandezza, spalancando alla band le porte dorate dello starsystem californiano, con collaborazioni e amicizie importanti, dai Fleetwood Mac a Bob Dylan. Primo disco nella loro carriera ad entrare nella top ten di Billboard (toccherà il picco della seconda posizione), con due singoli altrettanto fortunati (Don't Do Me Like That e Refugee), resta indiscutibilmente una delle testimonianze più felici di quell'epoca in cui il "mainstream", ovverio sia l'equilibrio perfetto fra la dimensione più popolare e al tempo stesso commerciale del rock'n'roll, adatterà la sua forma alla sostanza del songwriting, consegnando alla storia alcuni lavori che ancora oggi sono considerati pietre miliari dell'intendere la materia.

Non è un caso infatti che il gruppo entri in studio con Jimmy Iovine, un ingegnere del suono che al tempo si porta sulle spalle l'impegno profuso in Born to Run di Bruce Springsteen e il quale sarà presente anche alla lavorazione dei quasi contemporanei Darkness on the Edge of Town dello stesso Springsteen e Easter del Patti Smith Group. In uno spirito comune con Night Moves e Stranger in Town di Bob Seger potremmo considerarli tutti la mappa essenziale di quell'epoca, le fondamenta di un suono che nelle sue diverse gradazioni e sensibilità personali contribuisce alla stesura delle regole ancora oggi da rispettare nel linguaggio rock americano.

Nel mucchio Damn the Torpedoes è quello più "sbarazzino" e sfrigolante per contenuti musicali, seppure non si sia mai posto troppo l'accento sulla qualità e il senso delle storie narrate da Tom Petty. Malinconico e irascibile a tratti, inno ai loser di ogni latitudine, pieno di speranza e rimorsi, Damn the Torpedoes è il manifesto di un rock'n'roll che parte dal basso, dalla passione e si tramuta in un successo planetario con la forza della gavetta, della competenza, fuori dai canoni tipici della costruzione di un mito. In questo senso è strettamente legato - pur da versanti musicali e poetici differenti - con l'immaginario che altri protagonisti stavano offrendo al tempo: alla rabbia feroce di un livido Springsteen in Darkness (il cofanetto deluxe arriva proprio in questo stesso periodo e il collegamento non può sfuggire), Petty e gli Heartbrteakers ribattono però con una apparente freschezza sonora che nasconde le diverse pulsioni e lotte che la band ha dovuto affrontare negli anni precedenti.

Dopo l'affermazione di culto del primo album e il consolidamento di You're Gonna Get It, ai quali fa seguito un inaspettato entusiasmo del pubblico inglese, un tour europeo e una certa confidenza con il mondo punk (qualcuno li confonde persino nella bolgia del genere, anche se il vocabolario degli Heartbreakers è assai più classico e complesso), Tom Petty e compagni affrontano una battaglia durissima con la MCA, che ha da poco rilevato i diritti della piccola Shelter, l'etichetta di Danny Cordell e Leon Russell sotto la cui bandiera la band ha pubblicato sino ad oggi. Sarà ancora una volta - così come il primo Petty che arrivò giovane in California e orfano dei suoi vecchi compagni nei Mudcritch - uno scontro per l'indipendenza, che mette a fuoco la dura pellaccia dell'artista della Florida, la sua ostinazione per un totale controllo dell'aspetto artistico, fino a spingerlo sull'orlo della bancarotta.

Dal tumulto nasceranno, come spesso accade, una tensione e un'urgenza espressiva che sintetizzano magistralmente il suono degli Heartbreakers al picco della loro creatività: Damn the Torpedoes è lo zenith di quanto già adombrato dalla formazione nei due predecessori, amplificato però dalla cristallina produzione di Iovine, che sembra accrescere a dismisura le qualità melodiche del songwriting. Ora più che mai la musica di Petty echeggia come un condensato della storia, aggiornando la lezione del passato con una spontaneità e naturalezza che ridanno sentimento al concetto di classic rock, al tempo (giustamente) messo al muro dal j'accuse del mondo Punk. Gli elementi chiave restano le chitarre di Mike Campbell e il piano di Bemmonth Tench, da cui scaturisce quel confronto fra l'armonia dei Byrds e dei Beatles da una parte e la sfacciataggine elettrica degli Stones o la profondità delle radici dei Creedence dall'altra.

Piccolo riassunto - e assai incompleto va da sé - di quello che si cela dietro il suono scintillante di Here Comes My Girl, Even the Losers, delle infiammate Century City e What Are You Doin' in My Life?: jingle jangle dalla memoria della rivoluzione folk rock, accenni di british invasion, morbida psichedelia e rock affilato dove un riff di Chuck Berry incontra il figlioccio Keith Richards e si ritrova proiettato nel sud degli States. Dovreste conoscerli a memoria questi brani, lo diamo quasi per scontato se avete dimistichezza con queste pagine: Refugee è una bomba che deflagra in apertura, singolo che compendia come nessun altro l'Heartbreaker-pensiero; Don't Do Me Like That l'altra faccia malandrina e pop del gruppo, espressione delle scrittura più "leggera" dell'artigiano della melodia Tom Petty; Louisiana Rain la ballata per eccellenza che chiude il sipario sulla nostalgia di un tramondo sudista. Per chi le avesse fatte proprie e risentite fino alla nausea, queste sono fermate obbligatorie dell'american music, le ritroviamo oggi ripulite e lucidate dalla deluxe in questione, mentre chi le volesse scoprire per la prima volta riceverà finalmente indietro l'interpretazione di un suono che è una autentica scuola di pensiero.

Ovvio che agli affezionati interessarà sapere soprattutto cosa si nasconda nella seconda parte della scaletta, in quel disco aggiunto che ogni deluxe che si rispetti deve annoverare. Forse qui nasce l'esigenza di moderare un poco il giudizio finale (l'originale è un 10 scontato…c'era qualche dubbio?), alla luce probabilmente di una mezza occasione sprecata, di qualche succosa chicca e di altri riempitivi meno giustificabili. È fuori di dubbio ad esempio che la vicinanza con il monumentale Live Anthology della scorsa stagione tolga un po' di fascino ai soli tre brani dal vivo (Hammersmith Odeon, 1980) qui esibiti: una vivace Shadow Of A Doubt (A Complex Kid), una più routinaria Don't Do Me Like That e la spassosa riproposizione del classico Somethin' Else di Eddie Cochran, a ulteriore prova della competenza storica che anima da sempre Petty e la band. Rappresentano nell'insieme un piccolo assaggio, a cui è forse meglio contrapporre i veri e prori inediti di studio. Qualcosa qui comincia farsi interessante, forse non tanto da motivare per tutti l'aquisto obbligato, eppure è inutile nascondere quanto Nowhere sia una outtake che avrebbe avuto pieno significato dentro la scaletta originale: l'intreccio fra chitarre e organo, il sound affilato e figlio del garage rock si colloca nel medesimo solco. Tanto quanto la dolcissima rock song Surrender, già conosciuta in versione live, e qui colta in studio come la quintessenza del beat sprigionato dagli Hearbreakers.

Bastano queste primizie, insieme alle già note (soprattutto ai fans) b-side Casa Dega (piccolo capolavoro misconosciuto) e It's Raining Again (breve sferzata country blues elettrica), per attirare le vostre attenzioni? Onestamente la risposta andrebbe lasciata anche al grado di affetto che si nutre verso un disco e ciò che rappresenta: se lo avete fatto vostro, consumato, assimilato come fosse un pezzo di vita, allora anche una semplice traccia ritmica altenativa di Refugee (a chiusura del secondo cd) potrebbe riportarvi alla vostra giovinezza di ascoltatori. Chi invece ne è completamente a digiuno corra ai ripari, scoprendo l'essenza di quello che chiamiamo rock'n'roll.
(Fabio Cerbone)

 


    

 


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