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Jerry
Jeff Walker Scrive Jack Kerouac, nell'introduzione all'edizione americana di The Americans, libro fotografico assemblato da Robert Frank durante un viaggio negli States, tra il '55 e il '56, a bordo di un'automobile usata (fonte d'ispirazione, tra l'altro, per il collage di scatti utilizzato dagli Stones sulla copertina di Exile On Main St.): "Robert Frank, svizzero, discreto, carino, con quella sua piccola macchina fotografica che tira e fa scattare con un una mano, ha estratto una poesia triste dal cuore dell'America e l'ha fissata su pellicola, così è entrato a far parte della compagnia dei grandi poeti tragici del mondo". Perché Frank, fotografo assai sorvegliato e analitico a dispetto realismo in apparenza icastico, sarebbe, secondo Kerouac, un "poeta tragico"? Le istantanee di Frank, come i dipinti di Edward Hopper, isolano il frammento di una storia. Creando una cornice temporale sospesa, suscitano domande intorno ai loro protagonisti (uomini o donne, bambini o vetture, case o animali): dove guardano?, cosa aspettano?, perché si trovano lì?, e così via. La risposta a queste domande non c'è, o meglio, la risposta è che non c'è risposta. Ogni frammento visivo risulta essere un semplice intervallo tra un gesto e un altro, tra un movimento e il successivo. Ogni fotografia diventa uno spazio, una pausa in grado di trasmettere brividi e suscitare vertigini elevandosi al di sopra del flusso di sofferenza della vita. Alla maniera di un haiku, le fotografie di Frank e i quadri di Hopper, o lo "scrivere bop" di Kerouac, riescono a trattenere la bellezza impressionista del momento manifestando una piena accettazione del "prima" e del "dopo", del dolore inarrestabile del quotidiano. In questo senso foto, pitture e parole assumono le caratteristiche della poesia tragica. In
musica, invece, mi azzardo a dire esistano pochi poeti tragici del calibro di
Jerry Jeff Walker, poeti tragici com'è ovvio non assuefatti all'idea di
dover descrivere drammi, lutti, calamità o sciagure per evocare un senso tragico
della vita. Impressionista come Kerouac, narrativo come Frank e malinconico come
Hopper, il newyorchese Jerry Jeff, trasferitosi ad Austin, Texas, all'inizio degli
anni '70 e lì diventato una piccola leggenda (addirittura celebrata attraverso
un'annuale festa di compleanno cui partecipa il fior fiore della musica texana),
ha sempre saputo catturare con poche note e poche parole, spesso nascoste dietro
sorrisi, battute salaci e cameratesche canzonature, la bellezza sospesa e l'inestirpabile
malinconia del vivere. Di solito lo trovate arruolato nella categoria del progressive-country
(definizione di rara idiozia) dal Texas scagliatosi, ormai quarant'anni fa, contro
i paludamenti dell'establishment di Nashville e dintorni, ma, sebbene una certa
affinità di vedute col movimento "outlaw" capeggiato da Willie Nelson e Waylon
Jennings sia innegabile, l'etichetta, da sola, non rende giustizia alle sfaccettature
e all'originalità delle sue canzoni. Sotto il profilo dei suoni, è meglio parlare
senza troppa demagogia di "American-music" pura e semplice, nelle parole dell'interessato
un intruglio di rock'n'roll, country, blues e "science-fiction" (fantascienza)
mescolato con volontaria indifferenza nei confronti di regole formali e di norma
intercalato da sgrammaticature stilistiche parimenti deliberate; sotto il profilo
ideologico, al contrario, ci si trova di fronte a una vera e propria filosofia
da hippie della costa Est trapiantato nella "cintura della Bibbia" per osservarne
contraddizioni e irrigidimenti, sempre descritti col sorriso sulle labbra, e per
contrapporre alla bruttezza mediocre di bigottismo, razzismo e fascismo un ethos
composto da fumate e bicchierate, amicizie virili e grandi amori di passaggio,
notti vagabonde e giornate di duro lavoro artigiano, idealismo e inquietudine.
Se
i suoi lavori più riusciti - quelli più compatti e perciò apprezzabili anche dagli
avventori estemporanei - restano il seminale Viva Terlingua! (1973) e i
non meno intensi Ridin' High ('75) e It's A Good Night For Singin'
('76), l'uno più countreggiante, l'altro più urbano e notturno, il più rappresentativo
del carattere nomade e sfuggente dell'artista rimane senz'altro A Man Must
Carry On ('77), doppio live tanto sconclusionato quanto delizioso e, in certi
casi, indimenticabile, una stravagante panoplia di country elettrico, rock'n'roll,
traditionals, honky-tonk indiavolati, ballate tristi, rumori di un pollaio, riletture
da Bob Dylan e Ray Wilie Hubbard, poesie di amici e conoscenti declamate con la
massima serietà e classici anni '50 trasposti in modo a dir poco sgangherato,
dove il nostro si toglie anche lo sfizio di farsi accompagnare da un clarinetto
che c'entra come i cavoli a merenda . Proprio dal citato A Man Must Carry On
provengono le cinque bonus-tracks a corredo dell'omonimo Jerry Jeff Walker,
oggi ristampato dalla Raven, un altro dei capitoli irrinunciabili del
saga del musicista, per chi vi scrive di pochissimo inferiore ai titoli summenzionati
e per altri il capolavoro assoluto del suo intestatario.
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