Jerry Jeff Walker
Jerry Jeff Walker
[Raven  2011]

Scrive Jack Kerouac, nell'introduzione all'edizione americana di The Americans, libro fotografico assemblato da Robert Frank durante un viaggio negli States, tra il '55 e il '56, a bordo di un'automobile usata (fonte d'ispirazione, tra l'altro, per il collage di scatti utilizzato dagli Stones sulla copertina di Exile On Main St.): "Robert Frank, svizzero, discreto, carino, con quella sua piccola macchina fotografica che tira e fa scattare con un una mano, ha estratto una poesia triste dal cuore dell'America e l'ha fissata su pellicola, così è entrato a far parte della compagnia dei grandi poeti tragici del mondo". Perché Frank, fotografo assai sorvegliato e analitico a dispetto realismo in apparenza icastico, sarebbe, secondo Kerouac, un "poeta tragico"? Le istantanee di Frank, come i dipinti di Edward Hopper, isolano il frammento di una storia. Creando una cornice temporale sospesa, suscitano domande intorno ai loro protagonisti (uomini o donne, bambini o vetture, case o animali): dove guardano?, cosa aspettano?, perché si trovano lì?, e così via. La risposta a queste domande non c'è, o meglio, la risposta è che non c'è risposta. Ogni frammento visivo risulta essere un semplice intervallo tra un gesto e un altro, tra un movimento e il successivo. Ogni fotografia diventa uno spazio, una pausa in grado di trasmettere brividi e suscitare vertigini elevandosi al di sopra del flusso di sofferenza della vita. Alla maniera di un haiku, le fotografie di Frank e i quadri di Hopper, o lo "scrivere bop" di Kerouac, riescono a trattenere la bellezza impressionista del momento manifestando una piena accettazione del "prima" e del "dopo", del dolore inarrestabile del quotidiano. In questo senso foto, pitture e parole assumono le caratteristiche della poesia tragica.

In musica, invece, mi azzardo a dire esistano pochi poeti tragici del calibro di Jerry Jeff Walker, poeti tragici com'è ovvio non assuefatti all'idea di dover descrivere drammi, lutti, calamità o sciagure per evocare un senso tragico della vita. Impressionista come Kerouac, narrativo come Frank e malinconico come Hopper, il newyorchese Jerry Jeff, trasferitosi ad Austin, Texas, all'inizio degli anni '70 e lì diventato una piccola leggenda (addirittura celebrata attraverso un'annuale festa di compleanno cui partecipa il fior fiore della musica texana), ha sempre saputo catturare con poche note e poche parole, spesso nascoste dietro sorrisi, battute salaci e cameratesche canzonature, la bellezza sospesa e l'inestirpabile malinconia del vivere. Di solito lo trovate arruolato nella categoria del progressive-country (definizione di rara idiozia) dal Texas scagliatosi, ormai quarant'anni fa, contro i paludamenti dell'establishment di Nashville e dintorni, ma, sebbene una certa affinità di vedute col movimento "outlaw" capeggiato da Willie Nelson e Waylon Jennings sia innegabile, l'etichetta, da sola, non rende giustizia alle sfaccettature e all'originalità delle sue canzoni. Sotto il profilo dei suoni, è meglio parlare senza troppa demagogia di "American-music" pura e semplice, nelle parole dell'interessato un intruglio di rock'n'roll, country, blues e "science-fiction" (fantascienza) mescolato con volontaria indifferenza nei confronti di regole formali e di norma intercalato da sgrammaticature stilistiche parimenti deliberate; sotto il profilo ideologico, al contrario, ci si trova di fronte a una vera e propria filosofia da hippie della costa Est trapiantato nella "cintura della Bibbia" per osservarne contraddizioni e irrigidimenti, sempre descritti col sorriso sulle labbra, e per contrapporre alla bruttezza mediocre di bigottismo, razzismo e fascismo un ethos composto da fumate e bicchierate, amicizie virili e grandi amori di passaggio, notti vagabonde e giornate di duro lavoro artigiano, idealismo e inquietudine.

Benché di culto, il seguito di Jerry Jeff Walker (in termini di numeri assai più cospicuo in Texas che altrove) è nato e si è negli anni rafforzato attaccandosi soprattutto a quella caratteristica dell'autore che gli americani definiscono "looseness" (trascuratezza, allentamento), un gioioso disordine di stile e comportamenti dove chiunque può sentirsi, almeno per una volta, accolto, capito o perdonato. Eppure, come dicevo prima, la looseness di Jerry Jeff Walker, il suo recepire con ostentata indifferenza l'amarezza e il conforto ("I say everything seems to be movin' on / so I'm movin' on", cantava in Leavin' Texas, "I don't deny I get a loneliness / that comes sometimes / Well, all the miles and all the footsteps goin' down / ain't how I keep a count / For every lonely stretch where I just kept on / For keepin' on"), possiede il senso del tempo, la consapevolezza dell'attimo e la pace interiore che sono, appunto, caratteristiche fondanti della poesia tragica. Irregolare per scelta e per spirito, da quando ha rinunciato a viaggiare su major (risale alla metà degli anni '80 la nascita della sua label personale, la Tried & True) Jerry Jeff ha rinunciato anche a pubblicare dischi davvero significativi, tanto che sia la nuova descrizione del proprio stile (autodefinito "cowjazz", qualunque cosa significhi), sia gli album pubblicati in modo alquanto discontinuo dall'82 ad oggi, non possono essere considerati altro se non la dimostrazione spassosa (e in fondo inessenziale) del mai sopito umorismo di un vecchio, ironico cowboy un po' Jimmy Buffett e un po' Guy Clark.

Se i suoi lavori più riusciti - quelli più compatti e perciò apprezzabili anche dagli avventori estemporanei - restano il seminale Viva Terlingua! (1973) e i non meno intensi Ridin' High ('75) e It's A Good Night For Singin' ('76), l'uno più countreggiante, l'altro più urbano e notturno, il più rappresentativo del carattere nomade e sfuggente dell'artista rimane senz'altro A Man Must Carry On ('77), doppio live tanto sconclusionato quanto delizioso e, in certi casi, indimenticabile, una stravagante panoplia di country elettrico, rock'n'roll, traditionals, honky-tonk indiavolati, ballate tristi, rumori di un pollaio, riletture da Bob Dylan e Ray Wilie Hubbard, poesie di amici e conoscenti declamate con la massima serietà e classici anni '50 trasposti in modo a dir poco sgangherato, dove il nostro si toglie anche lo sfizio di farsi accompagnare da un clarinetto che c'entra come i cavoli a merenda . Proprio dal citato A Man Must Carry On provengono le cinque bonus-tracks a corredo dell'omonimo Jerry Jeff Walker, oggi ristampato dalla Raven, un altro dei capitoli irrinunciabili del saga del musicista, per chi vi scrive di pochissimo inferiore ai titoli summenzionati e per altri il capolavoro assoluto del suo intestatario.

Accompagnato da alcuni sidemen destinati a diventare colonne della futura, fedelissima Lost Gonzo Band (Gary P. Nunn al piano e Robert Livingston al basso), Walker registrò metà album in Texas, in pratica incidendo i brani live in studio nel momento stesso in cui venivano composti, mentre l'altra metà venne mixata in quel di New York, in occasione di una serie di date al Bitter End, con il contributo, tra gli altri di Michael Martin Murphey e David Bromberg. Ne risultò una prima parte laconica e sognante, tra Doug Sahm e il Dylan più "cosmico" e dolente, suggellata dalla stupenda dolcezza folkie di Hill Country Rain, dalla trasformazione di due canzoni dell'amico Guy Clark in un'epica ballata country-rock (L.A. Freeway) e in uno scanzonato carillon dei ricordi (That Old Time Feeling, con l'armonicista di Willie Nelson, Mickey Raphael), dall'elettricità repressa di Curly And Lil, dallo swing micidiale di When I Had You e dai profumi texani di una Charlie Dunn dedicata all'eponimo scarparo di Austin (scomparso nel 1993), e un secondo segmento più ruvido e scorbutico, incastrato nel folk'n'roll per violino e mandolini di That Old Beat-Up Guitar, nello showcase acustico di una David And Me cointestata alla sei corde di Bromberg, nel blues acido e "deadiano" di Moon Child, nel corrusco country-soul di Hairy Ass Hillbillies ("zotici dal culo peloso"), nel rock elettroacustico e caraibico della formidabile Her Good Lovin' Grace e nella chiosa psichedelica, tra Hunter S. Thompson, Tom Wolfe e Warren Zevon, di The Continuing Saga Of The Classic Bummer, or Is This My Free One-Way Ticket?, piroetta acustica e bevuta sul tempo che passa e il desiderio che resta (conclusa, giustamente, da un'esclamazione tra beffa e palinodia: "Grazie al cielo non dovete ascoltare la take successiva!").

Grande interprete di brani altrui e sopraffino scrittore in proprio, Jerry Jeff Walker ha dimostrato che si può scrivere una canzone su tutto ("Questa canzone è stata scritta / In una stanza d'albergo color verde pisello e priva di finestre / Sono le quattro del mattino e la TV non funziona / Sono ancora sveglio e non ho niente da fare / Ho scolato tutto il mio whisky e le mie birre / Sono già in orbita, ma mi trovo qui / Un vecchio zotico dal culo peloso / Ancora in piedi e resistente"), suonare di tutto, ricordare tutti, alzare un bicchiere con tutti. Non è ecumenismo: solo la consapevolezza di come i veri solitari siano quelli sempre circondati da altre persone, poiché conoscono il valore della solitudine, e i veri tragici sappiano comportarsi da adorabili cazzoni, poiché riconoscono la profondità totalizzante della tragedia. La ristampa di Jerry Jeff Walker, a lungo irreperibile, è un regalo da cogliere al volo nonostante una qualità audio buona ma non eccelsa (dettagliatissime, per contro, le liner-notes del libretto) e nonostante la cronica penuria di veri inediti.

Aspira il soffio della vita prima che voli via. Questo, e molto altro ancora, mi hanno insegnato i dischi di Jerry Jeff Walker.
(Gianfranco Callieri)


www.ravenrecords.com.au
www.jerryjeff.com




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