A metà del decennio più
turbolento e artisticamente fecondo della sua carriera Neil Young
è un uomo assediato dai fantasmi, dalla morte e da un senso di accerchiamento,
generato dal successo inaspettato che lo ha travolto dopo la pubblicazione
di Harvest, il suo disco milionario. Da questa bufera umana e
psicologica cerca di fuggire in direzione ostinata e contraria, provando
più o meno consapevolmente a distruggere pezzo dopo pezzo la fama raggiunta.
Da lì emergerà la cosiddetta “ditch trilogy”, sequenza di album (Time
Fades Away, On the Beach, Tonight’s The Night) che
hanno creato una parte preponderante del suo fascino di “loner”, cantore
degli abissi dell’anima, del crollo dei sogni di una generazione e dei
suoi struggimenti. Alla fotografia mancava sempre un dettaglio, un “se
fosse stato” che escludeva dallo sguardo uno stralcio abbondante di
registrazioni tenutesi fra l’estate del 1974 e il gennaio del 1975 in
diversi studi, fra Nashville, Los Angeles, il Broken Ranch dello stesso
Young e persino Londra.
Avrebbero dovuto far parte di un fantomatico album, Homegrown,
mai realizzato, al quale Neil Young preferì il più tetro e denso di
significati personali Tonight’s The Night, inciso due anni prima
ma pubblicato proprio nel 1975: una scelta che pagava pegno al ricordo
degli amici Danny Whitten e Bruce Berry, portati via dall’onda devastatrice
dell’eroina, e offriva così uno dei vertici del suo linguaggio country
rock sbilenco e precario, visioni di rock desertico e blues allucinato
in preda a droga, alcol e autodistruzione. Più volte oggetto di “bootlegaggi”
vari, di mitizzate raccolte nonché di brani sparpagliati o regalati
sotto altre forme e altre interpretazioni nel corso degli anni (da qui,
per esempio, sarebbero sbucate anche Pardon my Heart o Through
my Sails, finite in Zuma, o The Old Homestead, inserita in
Hawks and Doves), Homegrown è finalmente ripensato nella successione
di dodici brani (sette inediti assoluti) pubblicata per i famosi Archivi
con un’adorabile grafica di copertina, sulla falasariga di iniziative
simili realizzate nel recente passato (si pensi soprattutto a Hitchhiker).
Sulla fedeltà o meno agli
intenti originari è assai poco utile interrogarsi: Neil Young avrà rispettato
l’esatta sequenza del tempo o ne avrà semmai ricavato una memoria rivisitata
con gli occhi dell’artista di adesso? Innegabile comunque che Homegrown
abbia una sua coerenza interna, un piccolo posto nella storia discografica
del canadese e naturalmente anche un’attrattiva che nasce dalla curiosità
di affrontare per la prima volta queste canzoni come un unico corpo
musicale. Alcune sono già note a chi ha frequentato con intensità il
songbook di Young, altre meno, tuttavia il loro legame non sembra restituire
l’impronta di un “lost classic”, di una sorta di vagheggiato capolavoro,
magari ingiustamente dimenticato nei cassetti: Homegrown è semmai
affascinante proprio nel mostrare un altro nebuloso scatto di quel caotico
periodo, funestato dalle ombre del rapporto in frantumi con la prima
moglie Carrie Snodgress e dai problemi di salute del figlio Zeke, integrando
il discorso che già ricadeva a cascata sui contemporanei album ufficiali.
Spezzato, impreciso, attraversato da bozzetti, vicoli ciechi, canzoni
interrotte e momenti di pura illuminazione, Homegrown
non possiede la provocatoria liberazione di Time Fades Away,
radiografia dal vivo di un crollo umano, né la bellezza adamantita e
languida del capolavoro On the Beach, e neppure il disarmonico
quanto autentico grido di disperazione di Tonight’s the Night.
È piuttosto un saliscendi di emozioni, incise sulla carne viva di Young,
il quale, quando trova una pista fuori dalla coltre che lo avvolge,
ottiene i risultati sperati, altre volte invece pare semplicemente abbadonarsi
all’idea del momento.
L’uno-due iniziale ricade nella prima casistica: la band (ci sono i
fedeli Tim Drummond e Ben Keith presenti in lungo e in largo), con Levon
Helm ospite alla batteria, entra svagata e insegue l’umore da matriminio
fallito di Separate Ways, tepore
country degno di Harvest ma più straziante, che raddoppia nella
succesiva Try, addolcita dalla voce
di Emmylou Harris come fossimo dentro una outtake di Comes a Time.
Lo schizzo pianistico di Mexico, un frammento, colloca già la
questione su un crinale più scivoloso, interrompendo l’apparente idillio
musicale. Confermando tutte le idiosincrasie dell’artista, che sono
in fondo ciò che lo rendono ancora oggi unico e vitale rispetto a molti
coetanei, l’opera cosciente di sabotaggio prosegue con la scalcagnata
marcia country rock della stessa Homegrown
(inno dai risvolti ecologisti che sarà reinciso per American Stars
‘N Bars), un brano che quando sembra prendere quota è già finito,
sfumato in una nuvola di elettricità alticcia. E se dunque la limpida
melodia da filastrocca folk (rielaborazione della nota Dance Dance Dance)
di Love is a Rose apre un’oasi di pace e Kansas
squarcia il velo della maliconia acustica dell’autore, il blues lascivo,
lamentoso e cubista di We Don’t Smoke it No More e la follia
di Florida buttano tutto immediatamente fuori dalla finestra,
la seconda in particolare uno strambo sogno allucinogeno, accompagnato
da un semplice parlato di Young e da rumori sinistri di sottofondo (potrebbe
rimandare ad un violino straziato, ma pare sia un bicchiere “martoriato”
dalle dita di Ben Keith).
L’album torna a brillare, uscendo dalla scontrosità precedente, con
due delle gemme più preziose in scaletta: senza dubbio la versione primordiale
di White Line (in seguito screziata
in toni più sanguigni ed elettrici con i Crazy Horse e inclusa in Ragged
Glory), qui eseguita in dolcissimo abito country folk con l’ospite
Robbie Robertson in gran spolvero alla seconda chitarra, e quindi
il contraltare dai nervosi sobbalzi rock di Vacancy,
che non avrebbe affatto stonato nella scaletta di Time Fades Away.
Il finale è più quieto, un atterraggio morbido nell’accogliente ritiro
della campagna, per placare un’anima ferita: Little Wing, che
sarebbe riemersa in Hawks and Doves anni dopo, si accartoccia
sui sussurri di voce e armonica, dileguandosi velocemente e lasciando
campo alla cullante armonia agreste di Star of Bethlehem (anch’essa
recuperata in seguito su American Stars ‘N Bars), la seconda
voce di Emmylou Harris a nascondere con le carezze tutta l’agitazione
e il subbuglio che muoveva la tempesta interiore di Neil Young.
Homegrown è una coda di quella tempesta, non ne rappresenta l’occhio
del ciclone e men che meno il momento più catartico, ma aggiunge qualche
particolare in più sull’attraversamento inquieto di un’epoca.