Alex Chilton
Free Again: The "1970" Sessions
[Ardent Music / Omnivore / Big Beat 2012]


www.acerecords.co.uk

File Under: Only teenage wasteland

di Gianfranco Callieri (26/04/2012)


"I Big Star mi emozionarono come nessun'altra band prima di loro. Alex Chilton e Chris Bell scrivevano canzoni rock & roll in modo così sincero e vulnerabile. Mi sembrava incredibile che nel 1973 si scrivessero canzoni in questo modo": e se lo dice il frontman dei Counting Crows Adam Duritz (dalle liner-notes dell'ultimo, bellissimo Underwater Sunshine), folgorato dagli album dei Big Star finalmente reperiti durante un viaggio in Inghilterra nei primi anni '80, chi sono io per affermare il contrario? In molti, magari fuorviati da una fase terminale di carriera all'insegna del blues garagista, del grezzo ruvidume country e del rockabilly di Memphis (più o meno stravolto, ma pur sempre di stretta osservanza tradizionalista), potrebbero ancora serbare un'immagine di Alex Chilton legata alla dicotomia "lei mi ha lasciato, canto il blues; lei me l'ha data, canto il pop" (copia omaggio del disco qui recensito a chiunque sappia individuare l'origine della citazione). Dicotomia peraltro degna di tutto il mio rispetto e della vostra attenzione.

Al di là, però, degli ultimi album, ogni volta interessanti e divertenti sebbene in linea di massima un po' improbabili (a parte il Cubist Blues realizzato a sei mani con Alan Vega e Ben Vaughn nel '97, dalla seconda metà degli Ottanta in poi c'è solo revival, non sempre di prima mano), per capire le radici in cui affonda il culto di "Lx" Chilton e per comprenderne l'importanza come faro ispiratore delle generazioni successive bisogna tornare ancora più indietro, non già agli irrequieti gioielli pubblicati a cavallo tra '70 e '80 - due o tre album dove il nostro ha colto lo spirito di rottura radicale del ciclone punk e anticipato la rivoluzione lo-fi di quindici anni dopo - ma addirittura al crepuscolo dei Sessanta, allorché il giovanissimo cantante e compositore (all'epoca neanche maggiorenne) sbancava le classifiche con una band di liceali di Memphis denominata prima The Devilles e infine Box Tops. Benché gratificati dal successo mondiale delle varie The Letter, Cry Like A Baby, Neon Rainbow e Soul Deep, spettacolari esempi di rhytm & blues sudista innaffiato di irruenza r'n'r e malinconie blue-eyed soul, i Box Tops, a livello di suoni e arrangiamenti, appartenevano più ai produttori Dan Penn e Chips Moman (o alla penna di Wayne Carson Thompson) che all'umbratile songwriting di Chilton, destinato a rifulgere di luce propria soprattutto nella parabola (troppo) breve dei Big Star, tre dischi in tre anni (l'ultimo dei quali affiorato solo dopo lo scioglimento del gruppo) e altrettante cornucopie di suggestioni e tensioni per chiunque, da allora in poi, abbia voluto cimentarsi con power-pop, errebì elettrico e rock-pop dalle sinistre sfumature collocabili tra i Velvet Underground del terzo album e i Kinks più sulfurei.

Classico esempio di gruppo poco ascoltato in vita ma a dir poco seminale presso chi, anni e anni dopo, vi si è imbattuto per caso oppure grazie a provvidenziali amici e fratelli o sorelle maggiori, i Big Star non furono, tuttavia, il primo collettore del talento nervoso di Chilton all'indomani della fuoriuscita dai Box Tops. Nel 1970, infatti, rifugiatosi nella quiete e nella solitudine dei leggendari Ardent Studios di Memphis assieme al loro fondatore, John Fry, e all'ingegnere del suono Terry Manning (che vantava collaborazioni con Isaac Hayes, Percy Sledge, Ike & Tina Turner, Eddie Floyd, Al Green e altri colossi della musica nera del Sud degli States), Chilton aveva dato vita a diverse sessions rilassate e informali, più che altro utili a misurarsi con gli spigoli e le particolarità della propria scrittura in un'atmosfera avulsa da pressioni amministrative o finanziarie (quelle, cioè, degli a&r intenti a richiedere nuovi singoli milionari). Tali sedute, più volte bootlegate nel corso dei decenni, hanno visto la luce, grazie all'imprinting discografico degli stessi Ardent Studios, solo nel 1996, sotto l'icastico titolo di 1970, disco ormai a sua volta irreperibile e oggi ristampato dalla Omnivore come Free Again: The "1970" Sessions con l'aggiunta di varie bonus-tracks (missaggi alternativi, versioni demo e così via). Nulla di sconvolgente o rivelatore, sia chiaro, soprattutto per quanto riguarda il materiale aggiuntivo, tanto curioso quanto inessenziale; semmai un irrefrenabile brivido lungo la schiena per tutti quelli che, come chi vi scrive, dietro le storie e la voce di Chilton - adolescente bianco e borghese intrappolato nell'ugola di un bluesman ultracinquantenne - hanno fantasticato parecchio e trovano, oggi, l'opportunità di chiarirsi qualche passaggio, scovare un indizio nascosto fra le pieghe del tempo, confermare qualche associazione di idee tante volte vagheggiata tra l'inesauribile vena melodica del nostro e l'ispirazione dei vari Db's, Teenage Fanclub, Raspberries, Guided By Voices, Soft Boys etc., per non dire di quella dei coevi Byrds, Badfinger e Flamin' Groovies.

Free Again: The "1970" Sessions, a partire dalla fin troppo esplicita title-track ("I'm free again to sing my songs again / Free again to end my longing to be out on my own again"), altro non è se non un riassunto domestico e arruffato delle molte passioni di Alex Chilton, dal rock-blues all'insegna di organo e chitarre (Come On Honey) alle ballate intrise di romanticheria folkie (The EMI Song (Smile For Me)) fino all'amatissimo errebì di Memphis, qui espresso al meglio nella trascinante grinta rock di The Happy Song, bella e spumeggiante in modo quasi impossibile. Gli altri pilastri della musica di Chilton, ovvero l'ironia e il trasporto nei confronti delle canzoni altrui, si ritrovano intatti e, se possibile, ancor più enfatizzati del solito: la prima nei sipari quasi burlesque delle varie I Can Dig It, I Wish I Could Meet Elvis e All I Really Want Is Money, brani che sembrano surreali prese per i fondelli della vetustà rock/r&b del suono fabbricato da Moman e Penn per i Box Tops; il secondo nella sferzante rilettura degli Stones di Jumpin' Jack Flash, qui inchiodata a un beat ossessivo in stile Bo Diddley, e nella corrosiva trasposizione di Sugar Sugar, archetipo bubblegum-pop appartenuto agli Archies (band immaginaria, titolare del cartone animato The Archie Show, creata dalla televisiva Filmation nel 1968) per l'occasione imbastardito col rantolare cavernoso del James Brown di I Got The Feelin'. A diversi frequentatori casuali potrebbe andare di traverso la straniante e stranita dimensione downhome del tutto, il senso di distensione sconfinante nella trascuratezza, l'approssimazione criminale con cui Chilton, appiccicandole un'incomprensibile coda blues-rock nell'altrimenti perfetto finale, rovina una perla di pastorale delicatezza folk come Every Day As We Grow Closer, ma fa tutto parte del gioco degli umori e delle nevrosi che bisogna accettare preventivamente per apprezzare fino in fondo il personaggio. I brani di Free Again: The "1970" Sessions bruciano in forme sbilanciate ed eccentriche, con la stessa, ansiosa intensità del loro compositore, in una pioggia continua di amori negati, esitazioni affettive, bellezze nascoste. Sono brani che esistono, privi di qualsivoglia sorveglianza stilistica, solo intorno a una sensazione o a un'idea: quella della giovinezza irripetibile di chi canta, e di chi ascolta.


  


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