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Ron
Rash
Il Custode
[La
Nuova Frontiera., pp.256]
Non occorrono particolari trucchi alla letteratura di Ron Rash
per entrare nell’animo del lettore, il suo “plain spoken”, come
direbbero gli americani, ha la forza che deriva dalla semplicità
dei personaggi e delle storie che popolano i suoi romanzi, da
sempre racchiusi nel piccolo mondo di quell’angolo degli Stati
Uniti che si snoda fra la catena dei monti Appalachi (Rash è nativo
della South Carolina). Un paesaggio umano, generalmente povero
e isolato, vive in simbiosi con un paesaggio naturale, influenzandosi
a vicenda attraverso esistenze che sembrano seguire il ritmo ciclico
della coltivazione dei campi, del duro e umile lavoro, che nel
caso de Il custode può essere anche quello di guardiano
del cimitero.
È il ruolo assegnato a Blackburn Gant, ragazzone dal fisico forte
ma dal volto segnato irreparabilmente dalla poliomelite, al quale
i genitori hanno trovato un posto di custode lontano dagli sguardi
indiscreti della gente. Lì ha sviluppato la sua dimensione quotidiana,
prendendosi cura di chi non gli farebbe mai del male: “I morti
non potevano fargli niente di peggio di quanto gli avevano già
fatto i vivi”. Il mondo intorno al cimitero invece è attraversato
dall’inganno e dalla violenza, quella che vive Jacob, l’amico
di infanzia di Blackburn, partito per la guerra di Corea (Il
custode è ambientato nei primi anni Cinquanta) lasciando la
comunità rurale di Blowing Rock, Carolina del Nord, ma soprattutto
il suo grande amore, Naomi Clarke. Le pagine del romanzo si aprono
proprio con la descrizione potente e feroce di Jacob che lotta
con un soldato nemico per sopravvivere tra il freddo e il ghiaccio
della Corea, pensando soltanto a salvarsi la pelle perché “Non
poteva morire. Dio o il destino, qualcosa aveva stabilito che
lui e Naomi passassero la vita insieme”.
A casa lo aspetta una nuova fattoria e l’amore di Naomi, che egli
stesso ha affidato alla protezione dell’amico Blackburn, affinché
non le manchi nulla durante l’attesa del loro bambino, consapevole
Jacob che dalla sua famiglia, i benestanti Hampton, non riceverà
nulla. Lo hanno infatti rinnegato e diseredato per quella scelta,
fidanzarsi con una ragazza povera che era comparsa come un’estranea,
cresciuta in una famiglia di rozzi contadini del Tennessee, i
Clarke, che nulla potevano avere in comune con dei ricchi commercianti
come loro. Da qui si dipana l’intrico di menzogne e sotterfugi,
fino ai più meschini e impensabili, che gli Hampton costruiranno
meticolosamente per impedire il matrimonio tra il figlio Jacob
e Naomi: "Erano tantissime le bugie da tenere in piedi
e altre ne sarebbero seguite. Somigliavano a una lunga fila di
vagoni su un ripido pendio, bastava lo sganciamento di uno soltanto
per causare un disastro".
Un groviglio che finirà inevitabilmente per mettere alla prova
anche lo stretto legame di amicizia e rispetto fra Blackburn e
Jacob, chiamati entrambi a fare luce sulle loro ombre interiori,
sui sospetti e le incomprensioni reciproche, cercando di rimettere
insieme i pezzi di una comunità, quella della piccola Blowing
Rock, che ancora una volta deve fare i conti con un apparente
“paradiso”, corrotto invece dall’egoismo che può abitare ogni
famiglia. Rash, più volte accostato ai grandi narratori
della tradizione sudista americana, sembra piuttosto richiamare,
come peraltro nei precedenti
lavori pubblicati da La Nuova Frontiera (Un piede in paradiso,
La terra d’ombra, sempre nella traduzione di Tommaso pincio)
le qualità del linguaggio limpido e minimale di un Kent Haruf,
con lo stesso amore per i personaggi e il loro muoversi dentro
l’ambiente rurale di un’America spesso ostile e dura nei confronti
delle loro esistenze. Il custode non fa che ribadire le
intenzioni di un autore al quale interessano i temi universali
(qui famiglia, amore, amicizia) e al tempo stesso i caratteri
particolari.
(Fabio
Cerbone)
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Brian
Panowich
Nient'altro che ossa
[NN
Editore , pp.384]
Alle radici di Bull Mountain, c’è un ragazzo cresciuto
in fretta, che ha imparato a combattere per un padrone molto potente,
nella fattispecie Gareth Burroughs. L’iniziatore della stirpe
l’ha accolto nella sua congrega e Nails alias Nelson McKenna è
diventato più di un amico per il figlio Clayton. Nails è menomato,
ha qualche problema nei movimenti non meno che nel linguaggio,
ma i suoi limiti sono la sua forza: è obbediente e preciso e,
come è noto, per i Burroughs non serve altro. È un bravo soldato,
solo che compie un errore, che non è un errore. Salva una ragazza,
Dallas, da un tentativo di violenza, ma non è solo un salvataggio
(un uomo resta a terra e non si rialza più), e Dallas non è proprio
un nome del tutto vero.
Avviene per una scelta, senza dubbio, ma l’impeto non calcola
né i danni immediati (si tratta anche di un omicidio) né i risvolti
collaterali. Nails ha agito d’istinto e pur essendo nel giusto,
Gareth Burroughs non può permettersi troppe attenzioni o gesti
di generosità fuori dal suo controllo e gli organizza una via
d’uscita o una condanna (un po’ tutte e due). Clayton, che sta
costruendo la sua casa con l’aiuto del padre, e lo conosce fin
troppo bene, sente che su Nails è calata una sentenza e si muove
a sua volta per aiutarlo. Cambia lo scenario. Sulle montagne riposa
solo un mucchio di ossa e verso Jacksonville convergono interessi,
condizioni e legami nuovi e antichi. Jacksonville non è la McFalls
County: lì l’influenza dei Burroughs arriva (comunque), ma è filtrata
dalla distanza e dal tempo e, più di tutto, da una motivazione
improbabile. Clayton Burroughs agisce per amicizia, un termine
che non è contemplato nel limitatissimo vocabolario di Bull Mountain,
dove tutto è in termini di do ut des, e costringe il padre a intervenire
in nome della famiglia. La famiglia non te la scegli e trattandosi
dei Burroughs rimane una spada di Damocle.
Saltano un po’ tutte le regole ed è come passare dal bianco e
nero e vedere a colori: sul canovaccio classico di un road movie,
che va da Bonnie & Clyde a Thelma & Louise, Brian Panovich
crea un intricato susseguirsi di connessioni rendendo comprensibili
(se non proprio accettabili) persino gli inamovibili codici di
Gareth Burroughs, che resta in cima all’albero genealogico e alla
catena alimentare. Quella che per Nails e Dallas doveva essere
una rotta verso nuove identità e una vita diversa, si trasforma
in un percorso a ostacoli tra stanze di motel, stazioni di servizio,
parcheggi e tutto un catalogo di fotogrammi sfuggenti che Brian
Panowich sa filtrare con un ritmo altalenante, a tratti frenetico
e compulsivo, come l’abbiamo già conosciuto, altrimenti più complesso
e riflessivo.
L’alternarsi delle canzoni di R.E.M. (Fall On Me), Mazzy
Star (Fade to You), Nirvana (All Apologies), Soul
Asylum (Runaway Train), Goo Goo Dolls, (Slide),
Garth Brooks (Friends In Low Places), Tom Petty (You
Wreck Me e Running Down A Dream), The Sundays (Wild
Horses) è il contrappunto specifico che risalta più che in
altre occasioni. È una colonna sonora particolare che inquadra
il tempo non meno della geografia: qui siamo proprio all’inizio
di tutta la saga, una sorta di prequel che spiega molte cose (a
partire dal rapporto tra padre e figlio nei Burroughs) e, oltre
a introdurre il personaggio di Nails, sposta la prospettiva dai
limitati confini di Bull Mountain. Le fughe e gli inseguimenti
attraverso “un paese fatto di luci al neon, cemento e scelte
sbagliate” fanno risaltare una gamma di possibilità compresa
l’ipotesi, dichiarata dallo stesso Brian Panowich, che possa esistere
una speranza “anche negli angoli più bui del profondo sud degli
Stati Uniti”. Tra i tanti spiragli lasciati aperti da Nient’altro
che ossa è il più appariscente, ma non è nulla rispetto
ai dubbi e agli enigmi che insinua su quello che è stato e su
quello che verrà.
(Marco
Denti, tratto dal blog di BooksHighway)
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James
Lee Burke
Una cattedrale privata
[Jimenez
edizioni, pp.400]
Romanzo dopo romanzo, Dave Robicheaux, oltre
a diventare il miglior anfitrione della Louisiana e di un’America
oscura, si è trasformato in una sorta di sentinella morale, che
segue una contorta, ma efficace filosofia alimentata dai suoi
drammi personali non meno che dai conflitti della terra in cui
vive. Questa è ormai la definizione delle sue storie, dove la
trama resta funzionale a fornire un background alla sua evoluzione.
Succede anche in Una cattedrale privata, che comincia
attorno a Johnny Shondell e Isolde Balangie, una coppia di giovani
musicisti che aspirano a trovare un ruolo nell’industria discografica
e si ritrovano a scontrarsi con il solito sottobosco di produttori,
manager, speculatori e truffatori assortiti.
La loro avventura (e la loro storia) è messa in pericolo dalle
rispettive famiglie che si combattono da secoli. La faida si perde
nel tempo e nelle idee dei capostipiti rimasti dovrebbe trovare
una tregua, se non proprio una convivenza. Il prezzo da pagare
è la stessa Isolde, data in pegno a suggellare la provvisoria
cessazione delle ostilità. Il traffico di esseri umani, a sfondo
sessuale, è un reato particolarmente odioso e quando Dave Robicheaux
lo scopre, accende una scintilla che è destinata a far esplodere
questa versione di Romeo e Giulietta in salsa cajun, molto speziata,
e avvolta in una nebbia torbida e psichedelica.
La terre comune di Una cattedrale privata resta collocata
sulla mappa nell’andirivieni tra New Iberia e New Orleans, con
gli interventi spropositati di Clete Purcel, i bassifondi brulicanti
di un’umanità dolente e di rari alfieri dell’innocenza e della
bellezza. Le baruffe, le risse, i colpi di scena (a raffica) sono
soltanto gli aspetti superficiali e spettacolari che punteggiano
un territorio stratificato, sia nello spazio che nel tempo, dove,
nell’atmosfera umida e lattiginosa del bayou, sospeso tra le maree
e le paludi, si mescolano fantasmi evanescenti e mostri molto
reali. L’apparizione di un antico galeone, oltre a riaccendere
tragici ricordi del commercio degli schiavi, spalanca le porte
di universi paralleli, che in Louisiana hanno ragioni simboliche
e metaforiche per esistere e continuare ad asfissiare ogni vita
quotidiana.
Con Una cattedrale privata, James Lee Burke conduce
in una vasta zona grigia dove la realtà e le tenebre dei sogni
e degli incubi si mescolano come il ghiaccio nel Jack Daniel.
Più di Dave Robicheaux, che pare ipnotizzato dagli spettri, se
ne avvede Clete Purcel: “Questa volta è diverso, tutto quello
che abbiamo fatto. Il modo in cui il mondo appare. Come se stessimo
entrando e uscendo dal tempo”. L’elemento soprannaturale,
non insolito nei romanzi di James Lee Burke in Una cattedrale
privata è ancora più ingombrante. L’intreccio di passioni,
scontri, legami (che risalgono al passato, e fino all’Italia),
con le apparizioni mefistofeliche di Gideon Richetti, che si rivelerà
un alleato insolito e misterioso, conducono Streak alias Dave
Robicheaux e Clete Purcel in un vortice allucinante di deviazioni,
che non esclude nulla, dalla pedofilia alle torture medievali.
I tormenti di Dave Robicheaux diventano un refrain ricorrente
più che mai e le visioni che condivide con il suo socio diventano
via via una forza gigantesca e oppressiva finché lo stesso James
Lee Burke non spiega che “ognuno di noi ha una cattedrale privata
che si guadagna, un posto speciale a cui ritorna quando il mondo
prima o poi diventa troppo, e smarrimento e disperazione vengono
con il sorgere del sole”.
Il processo di identificazione con Dave Robicheaux arriva così
ua n punto di non ritorno: la rigorosa percezione di una netta
distinzione tra bene e male vacilla, l’idea stessa di giustizia
collassa su se stessa sotto il peso della burocrazia e dei politici
e viene superata dalla vendetta, intesa come resa dei conti tout
court, senza esclusioni di colpi, in questo o nell’altro mondo.
In questo la premiata ditta dei Bobbsey Twins non si lascia sfuggire
nulla e, per fortuna (nostra e loro) colpisce durissimo. L’epigrafe
di Muddy Waters diceva già tutto fin dall’inizio, ma lì dentro
c’è un’altra storia, ancora più lunga e complicata.
(Marco
Denti, tratto dal blog di BooksHighway)
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Don
Carpenter
Hard Rain Falling
[Edizioni
Clichy, pp.456]
Ci sono almeno tre libri in Hard Rain
Falling. Il primo è un romanzo di formazione che si svolge
attorno al tavolo da biliardo. Il secondo è un tuffo del girone
dantesco dei tribunali e delle carceri. L’ultimo ci accompagna
a spiare la presunta normalità di una famiglia e i suoi tentativi
di restare unita. Attorno al personaggio che attraversa tutte
e tre le fasi, Jack Levitt, si coagulano le storie di Billy Lancing
(soprattutto), Denny e Bobby. Sono poco più che bambini, i loro
destini si dividono e si intersecano, ma restano degli irremovibili
outsider. La forza di Jack, che deriva dal terrore, dalla solitudine
e dall’abbandono, è un motore inarrestabile, ma anche sconsiderato
e selvaggio. Come ammette lo stesso Jack, in quelle condizioni
il più delle volte “ne sai abbastanza per capire che ciò che
provi è insensato, ma non ne sai abbastanza per capire perché”.
È un bel dilemma e il gioco d’azzardo e il biliardo, che ritorna
come se per Don Carpenter fosse un modo per fare ordine
attraverso le linee, quasi un codice a sé stante, sono gli elementi
che attraggono e coinvolgono, con “un senso di aspettativa
quasi sensuale”, e attorno ai quali ruota tutta la vita nei
bassifondi. Sono un pozzo senza fondo con gente che rimane intrappolata
perché “la vita sembrava piena di promesse che poi si riducevano
a niente. Non poteva che andare così, perché erano delle false
promesse; non potevano che essere false, perché erano troppo allettanti”.
Una constatazione amara che segue Jack (e Billy) da Portland a
San Francisco, da Las Vegas a Seattle: in tutta la costa occidentale
gli spazi sono infiniti e angusti nello stesso tempo. Si sovrappongono,
persino, finché Jack non viene arrestato, giudicato e condannato.
La differenza tra giustizia ed equità emerge nelle privazioni,
nella corruzione e negli abusi del sistema carcerario, un luogo
dove il potere si esprime in tutte le sue deformazioni. Una situazione
di infinita precarietà, vissuta in modo particolare da Jack che
“stava ancora cercando di assorbire le impressioni e i suoni
della prigione; era la sua nuova casa, e si aspettava che fosse,
quasi desiderava che fosse, la sua casa per il resto della vita.
Perché pensare in qualsiasi altra maniera significava sperare,
e lui sperava di aver perso la speranza”. Il quadro psicologico
di Jack e di Billy Lancing, che il primo ritrova proprio in prigione,
è delineato con estrema chiarezza perché “lo scopo della prigione
è di punire e qualunque ravvedimento è puramente accidentale.
Alla società non frega un cazzo di quello che ti succede, e tu
lo sai. La società è un animale, proprio come tutti quanti noi”.
Non è un caso che Don Carpenter richiami Caryl Chessman, che testimoniò
a lungo la brutalità del sistema carcerario, dove tutto è “una
questione di delicato equilibrio tra sfida e obbedienza”.
Lasciatosi Alcatraz e San Quentin alle spalle, e con “la volontà
di fare qualcosa della propria vita”, Jack trova lavoro in
una pasticceria e incontra in modo rocambolesco Sally, che lo
introduce a un livello più agiato di imprenditori, faccendieri
e affaristi, parti integranti della nazione e del sistema. Jack
e Sally formano una traballante famiglia, con un figlio che chiameranno
Billy, ma l’eco della giungla è comunque più forte: “All’inizio
ti abitui a fare una certa vita e fingi che non esista altro,
finché di colpo ti ricordi di tutte le cose che si possono fare,
e il desiderio diventa forsennato e tutto il resto sbiadisce”.
Lo stesso Jack, nonostante tutto, non riesce a liberarsi dei suoi
trascorsi e ammette che “per quanto cercasse, nel suo passato
non riusciva a scovare niente che giustificasse la sua lotta.
Non aveva combattuto il volto oscuro della società; non era nemmeno
sicuro di cosa fosse. Aveva combattuto e basta”. Quello che
gli rimane alla fine è quello che rimane più o meno anche a noi:
“A poco a poco, grazie ai suoi libri, ai suoi dischi, alle
sue lunghe passeggiate solitarie, al semplice scorrere del tempo,
cominciò ad accettare la sua vita così com’era”.
Il linguaggio è crudo, mai accomodante o consolatorio e Don Carpenter
lascia affiorare riferimenti impliciti ed espliciti a Joyce, Beckett,
Cechov, Dostoevskij e cita anche Hemingway (Per chi suona la
campana) e Faulkner (Il borgo), ma l’influenza più
evidente è quella di Nelson Algren dove Hard Rain Falling,
già nel 1960, racconta un’America viscerale, rapace e ipocrita,
arrivando molto vicino alla verità. Nel prologo c’è abbastanza
sofferenza da riempire un intero romanzo, l’epilogo è una cartolina
beffarda dalla Costa Azzurra, e non è un finale felice.
(Marco
Denti, tratto dal blog di BooksHighway)
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