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Il cavallo
La ballata di Al Ward

- a cura di Fabio Cerbone -

Willy Vlautin
Il cavallo

[Jimenez, pp.192]

Tra il mondo narrativo e quello musicale di Willy Vlautin, scrittore ormai affermato e songwriter di culto alla guida di Richmond Fontaine e Delines, è sempre esistito un canale di comunicazione diretto, in entrambi i sensi, perché erano riconoscibili la medesima voce, asciutta e compassionevole, e l’altretttanto romantico e sensibile sguardo sull'altra America. Anche partendo da linguaggi diversi, i punti di vista erano gli stessi che animavano quell’immaginario da paese perduto e ferito, da racconto di esistenze marginali e spezzate. Tuttavia, mai come in occasione di questo Il Cavallo l’osmosi tra l’esperienza del musicista e quella del narratore si sono fatte così vicine, costruendo una vicenda che è l’archetipo di tutti i “losers” che là fuori hanno barattato la propria esistenza per l’amore di una canzone, di una chitarra e di una rock’n’roll band.

Da questo punto di vista si tratta probabilmente del suo romanzo più personale, quello più intrecciato con i demoni della strada e dei tour che prima o poi inseguono chiunque abbia percorso miglia schiacciato dentro un furgone. Naturalmente Willy Vlautin ne trasforma i dettagli e i connotati, “sfrutta” senz’altro esperienze autobiografiche, ma poi si abbandona al puro talento della letteratura e dell’invenzione, tirando fuori un protagonista come Al Ward, che è l’essenza stessa di questo vivere dei propri sogni (e dei rispettivi incubi) pagandone il duro prezzo.

Passata la sessantina, con più delusioni e fallimenti che successi alle spalle, Al è un chitarrista country alcolizzato e in ritirata, isolato dal resto del mondo in una vecchia concessione mineraria del Nevada che il prozio Mel gli ha lasciato in eredità (oltre a un bel gruzzolo di soldi). Sopravvive, mangia zuppe Campbell in scatola, si scalda con una vecchia stufa a legna e tra un dormiveglia e un’alzataccia ricostruisce i fili della sua “carriera” finita in un buco nero di ricordi, rimorsi e divorzi, dal giorno in cui, adolescente, il compagno della madre gli ha regalato una Telecaster butterscotch blonde del 1959, compagna inseparabile (in seguito spunterà anche una Martin D-28 del 1940).

Attraversato da continui flashback che ne ripercorrono la “lost highway”, Il Cavallo ci trasporta da quella fatiscente miniera in una lunga sequenza di episodi che hanno costellato l’esistenza del chitarrista e dell’autore Al Ward: da una band all’altra (i Sanchez Brothers i migliori di tutti, una specie di incrocio fra Blasters e Rank & File), da un palco al successivo, accompagnando leader ubriachi e rissosi e prime donne ammaliatrici, suonando soprattutto come turnista nel circuito minore e sfiancante dei casinò del South West, e componendo canzoni per altri, una specie di uomo ombra a cui tutti si rivolgono per sfruttarne le qualità indiscutibili del songwriting. Quasi rappresentassero un flusso di coscienza continuo, attingendo direttamente dalle cicatrici della sua vita (la più grande con Maxine, l’amore sfumato tra due anime tormentate che sembravano fatte per sorreggersi a vicenda), così come allungando lo sguardo su ciò che gli capita attorno, Al Ward è un fiume in piena che sforna liriche di getto, tra una pausa in un motel e un pranzo consumato in un diner.

Il lungo elenco dei brani composti costituisce un vero e proprio romanzo nel romanzo, compresi i titoli dal genio irresistibile: Willy Vlautin ne estrae sempre di nuovi dal cilindro e chissà che molti non siano in realtà spunti rimasti in un cassetto dei Richmond Fontaine o dei Delines. Di sicuro Al Ward e la sua storia sono un ammonimento e ricordano allo stesso Vlautin e al lettore come ci si può logorare l’anima in questo universo parallelo fatto di tour incessanti, bottiglie di tequila e girandole di ingaggi, fino a che un giorno, un cavallo, proprio la nemesi che aspettavamo, appare davanti alla baracca della concessione mineraria. È mezzo cieco, ferito, sembra arrivare dal nulla dopo una tormenta di neve, si piazza davanti alla porta e non se ne vuole più andare via. È vero o è soltanto una proiezione “alcolica” di Al Ward? In una sorta di immedesimazione naturale con l’animale e la sua sofferenza, tentando disperatamente di salvarlo, Al si lancia in un’impresa che è prima di tutto una ricerca di se stesso, una discesa a patti con i fantasmi che si porta appresso e dei quali forse vorrebbe liberarsi.

Costruendo una storia che più Americana non si può, percorsa in lungo e in largo da un “suono” che echeggia il fallimento di tutti i beautiful losers, Willy Vlautin ci racconta (verrebbe da dire: ci canta) la bellezza che si annida nella sconfitta e il riscatto di chi nella vita ha comunque saputo amare.


Il cavallo, una playlist ispirata al romanzo (a cura di Fabio Cerbone)


Willy Vlautin su BooksHighway, dai nostri archivi:

- Speciale "The Free" + intervista all'autore
rootshighway.it/bookshighway/books195.htm

- Willy Vlautin: fughe e motel nella notte di Portland
rootshighway.it/speciali/vlautin.htm


 


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