Cambio di scena per Jennifer Pashley, stesso livello
di emarginazione e solitudine. Da South Lake, profondo sud rurale, a
Spring Falls, freddo nord-est: luoghi immaginari per scelta letteraria,
eppure verissimi, che raccolgono pezzi di sogno americano in frantumi,
quella suburbia popolata di “white trash”, come direbbero in tono dispregiativo
e frettoloso i detrattori di una povertà e un’ignoranza che vanno nascoste
sotto il tappeto, perché simbolo di un tradimento, lo stesso di un paese
che promette giustizia e successo soltanto per chi possiede i mezzi.
È ancora la periferia, con le sue esistenze ferite, al centro del lavoro
della scrittrice di Syracue, NY, anche se rispetto al celebrato Il
caravan l’incedere del nuovo Gli osservati (Carbonio
editore, 2021) si fa più stringente e asciutto, seguendo le regole
di genere, quelle di un thriller con meccanismi oliati e precisi. In
questo passaggio si perde forse un po’ del vagabondare più poetico (e
drammatico) del suo predecessore, ma non si cancellano la concretezza
spietata della scrittura e l'attenzione per i luoghi oscuri, i personaggi
“condannati” dalla vita, la capacità infine di descrivere con compassione
e affetto i personaggi dei suoi romanzi.
Così, ancora una volta Gli osservati è un gioco di specchi
tra due voci e un coro di altri co-protagonisti, con un gusto molto
particolare, e crediamo non casuale, nella scelta dei nomi: là erano
Rayelle e Khaki, oggi sono Kateri e Shannon, ma dovremmo citare anche
la piccola Birdie, Bear, Baby Jane e Hurt… Una galleria di gente fuori
posto a cominciare dall’anagrafe. Gli osservati dunque si costruisce
attraverso il dialogo fra Kateri, poliziotta che deve ricostruirsi una
vita (e una carriera) in una nuova cittadina, e Shannon, un ragazzo
che abita nei boschi e si trascina responsabilità famigliari troppo
grandi per la sua età. Il pretesto che accende la miccia della storia
è una scena del crimine, degna di un romanzo gotico calato nella natura
selvaggia, un mucchio di ossa bruciate e tanto, troppo sangue, ma tutta
l’indagine - che seguirà comunque i canoni di un poliziesco vero e proprio,
con prove, perquisizioni e interrogatori – sarà condotta dalla chiamata
e risposta fra Kateri e Shannon, in un incrocio temporale ad incastro
e una soluzione finale che prova persino a sorprendere.
Eppure, ciò che rende davvero interessante l’opera di Jennifer Pashley
è la sua idea di utilizzare il genere, con tutto il carico di violenza
e disperazione che ne scaturiscono, per raccontare qualcosa di più profondo
rispetto alla formalità del delitto: là fuori, tra Gli osservati,
c’è l’America che tenta disperatamente di salvarsi in qualche modo,
cercando un po’ di grazia lì dove sembra esserci solo un destino di
sconfitta.
Jennifer
Pashley Gli osservati [Carbonio
editore, pp. 304]
Siamo a Spring Falls, nello stato di New York, dove tutti
sanno tutto di tutti ed è impossibile fuggire agli sguardi. Il clima
è impervio, l’inverno dura per tre quarti dell’anno, i boschi si estendono
inestricabili, la speculazione edilizia è in agguato, gli outsider vagano
immersi in un’atmosfera densa di antidolorifici e alcol, o si nascondo
ai margini, nelle ombre. Questo è il milieu dell’America suburbana e
Kateri Fisher ci arriva da Syracuse, dopo un brutto incidente, che le
ha lasciato cicatrici profonde, e non solo sulla pelle. È un’agente
di polizia, una donna sola, come sono sole tutte le donne che popolano
Gli osservati. È sola Pearl Jenkins, che è sopravvissuta all’incendio
della sua casa con il figlio Shannon. Il marito, Park, è in carcere
per averlo appiccato, e così ha voluto la giustizia dello stato. Pearl
ha avuto un’altra figlia, Sparrow Annie Jenkins alias Birdie, ma la
tiene nascosta, e ha i suoi motivi per farlo. Ci sono traumi che è meglio
evitare e, per tenere insieme la famiglia, dice Shannon “ci accettavamo
a vicenda per quello che eravamo e non facevamo domande”.
Il caso che deve affrontare Kateri matura proprio dentro quei silenzi:
Pearl scompare, la casa è imbrattata di sangue, Birdie viene scoperta
in uno ripostiglio. È solo l’inizio di una storia labirintica, dove
tutto ruota attorno a un pugno di personaggi che, nelle singole solitudini,
si riflettono uno nell’altro, una nell’altra. Così l’ambiguo Bear Miller,
che gestisce le attività immobiliari della madre e ha intravisto un’obiettivo
nei terreni di Spring Falls, trova un corrispettivo in Shannon. In altri
modi, Kateri deve confrontarsi con il collega, Hurt (e anche i nomi
nascondono e/o rivelano un ulteriore percorso che si snoda attraverso
Gli osservati) per districarsi in una coltre di desolante freddezza
condita da rabbia, rifiuti, abbandoni, violenze.
Jennifer Pashley non molla la presa nemmeno per sbaglio, il ritmo
è serrato e i dialoghi sono frustate, ma sullo sfondo c’è il contrasto,
ed è sempre più nitido nell’inoltrarsi del romanzo, tra l’America dei
Miller e dei loro avvocati, una versione più edulcorata e appariscente
dei predatori nelle foreste e quella dei Jenkins, che cerca di tirare
avanti ai limiti della sussistenza. L’attrito è inevitabile perché i
desideri e le speranze, le ambizioni e i sogni sono destinati a incrociarsi,
ma non hanno una terre comune da condividere. È proprio lì che Kateri
e Hurt devono intervenire, cercando di dipanare una matassa di dubbi,
provando a cogliere l’innocenza nascosta nell’oscurità, provando a non
farsi sorprendere dai segreti occultati negli angoli di famiglie traballanti
di “poveri bianchi del cazzo”. La trama del thriller è seguita da Jennifer
Pashley con una discrezionalità particolare: gli elementi classici sono
tutti al loro posto, ma interpreti e ruoli, nello specifico (e semplificando)
vittime e carnefici, sono intercambiabili ed è questo che genera l’incalzante
sequenza di sorprese che Gli osservati riserva fino al finale.
Nel complesso, Kateri Fisher ha il ruolo dell’anfitrione ed essendo
un personaggio che, nelle sue sofferenze, riesce a condensare un po’
tutti gli altri, è facile intuire che potrebbe essere soltanto un primo
episodio di una (si spera) lunga serie. Ma è anche il simbolo di un’America
disorientata, di fronte a divisioni sempre più radicali e brutali, che
Jennifer Pashley sa intravedere e poi manifestare, senza un accenno
di moralismo, solo mostrando attraverso un linguaggio aspro, martellante
eppure congruente, i limiti estremi di una civiltà ossessionata dal
successo non meno che dal fallimento.