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L'inventario di Nick Cave -
a cura di Donata Ricci
- “Ciò che vedete in questo libro vive nel mondo
caotico che si forma intorno alle canzoni e nel quale le canzoni albergano.
Dietro la canzone c’è una quantità enorme di oggetti secondari – disegni,
mappe, liste, scarabocchi, fotografie, dipinti, collage, schizzi e bozzetti.
Questi oggetti non vanno considerati opere d’arte, ma piuttosto la sovrastruttura
stralunata e incontrollabile che sorregge, nel suo farsi, la canzone”.
Ecco sgombrato il campo, in poche righe introduttive vergate dallo stesso
Nick Cave, dalla taccia di feticista, ammesso che gliene importi.
Se la matericità può essere considerata una forma di alimentazione dell’arte,
ha un senso (e un senso profondo) questo volume che raccoglie reperti
e immagini degli oggetti personali esposti in mostra a Copenaghen nel
corso del 2020. E ha un significato (di più: un ulteriore buon motivo
per procurarsi questo libro) la presenza di un saggio dell’americana
Darcey Steinke, docente universitaria e autrice di romanzi metafisici.
Tocca a lei assemblare il puzzle di questa altrimenti caotica autobiografia
per reperti ed è lei che redige un dettagliato commentario, indispensabile
per contestualizzare gli oggetti rappresentati. Indagare il senso di colpa e l’espiazione, sondare l’inconoscibile, osare il sacro, sono ricorrenze in Cave. In questa raccolta vengono ritratti a grandezza naturale i cosiddetti “album artigianali”, specie di breviarietti consunti, zeppi di immagini sacre che condividono le pagine con schizzi di nudi femminili. L’autore li guarnisce di ciocche di capelli e sulla copertina incolla l’immaginetta di San Giuda, il patrono delle situazioni disperate, eletto pertanto a “papà del blues”. E poi simulacri mutuati dal suo interesse per l’angelologia, lo studio degli angeli, già più che un indizio ai tempi de Il cielo sopra Berlino e conferma nel primo romanzo E l’asina vide l’angelo, dove Euchrid vede il suo angelo nella palude. Un’impalcatura concettuale filobiblica coerente con i personaggi più segnanti delle sue canzoni, che trovano voce soltanto nell’aldilà, come fa notare Darcey Steinke. E non si tratta soltanto delle anime inquiete di Murder Ballads, ma anche dell’afflato mistico che pervade il recente Ghosteen. Come se condividesse l’affermazione della poetessa Fanny Howe che una canzone non è altro che un richiamo dall’aldilà. E aggiunge Cave: “Certe canzoni sono infide, quando le maneggi è prudente stare all’erta. E’ come se i brani che scrivo capissero meglio di me che cosa succede nella mia vita”. Canzoni come stelle – un altro tema ricorrente – che tengono in pugno il mistero del nostro esistere. Certe volte sono stelle appese tutte storte, alte volte sono astri saettanti o luci sfuggenti che seducono lo sguardo per poi negarsi; stelle che parrebbero esplodere e invece non esplodono perché, banalmente, hanno il loro momento e poi muoiono. Suggestioni, suggestioni potenti sono tutto ciò che arriva da Nick Cave. Fortunatamente nessuna risposta, né definitiva né interlocutoria, ma soprattutto nessuna promessa di salvezza. Nei suoi libri, ma soprattutto nelle sue canzoni – diciamo un po’ in tutto ciò che crea – lascia dei sospesi, pause di senso e opportunità di esplorazione. Che poi è lì che abita la poesia. A qualcuno la cupezza risulta indigesta, ma Cave sostiene da sempre che le sue canzoni non sono negative. L’oscurità, come osserva Steinke, non è necessariamente nichilista.
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