Più che alla canzone di Townes Van Zandt, da cui
i fratelli Harding, Timothy e Jake, prendono i soprannomi, il romanzo
del canadese Tyler Keevil deve la sua naturale struttura ai versi
di due brani di Springsteen, Highway Patrolman e Atlantic
City e, per inciso, a tutta l’atmosfera di Nebraska. La prima, citata
in epigrafe, è più che sufficiente a introdurre e a illustrare la condizione
della famiglia Harding che ha vissuto sempre un po’ ai margini di Vancouver,
una città tra Canada e Stati Uniti sospesa tra terra e mare, con il
cemento e l’acciaio che sfidano la wilderness. Gli Harding provano a
condurre una vita onesta, ma è difficile: con un padre scomparso ben
presto e una madre non del tutto allineata, Tim e Jake, gli equivalenti
di Joe e Frankie in Highway Patrolman, vengono cresciuti dalla
sorella Sandy, pronta a trasferirsi a Parigi verso un futuro radioso
da ballerina.
Il quadro familiare, nonostante le intemperanze di Jake, che ha una
sua peculiare vocazione nell’andare a caccia di guai (trascinando con
sé il fratello, naturalmente) regge fin quando Sandy non viene uccisa
in un incidente. Da lì in una il susseguirsi degli eventi porteranno
Jake in carcere, poi a essere debitore verso un gang di delinquenti
che gli chiederanno di rubare un cavallo, Shenzao. Tyler Keevil ci mette
un po’ a lasciar affiorare la trama di Poncho e Lefty
intercalando spesso il fantasma di Sandy e le ombre del passato che
inseguono i due fratelli, ma, nodo dopo nodo il racconto si intreccia
in una rete che cattura il lettore e non lo molla più. Inevitabilmente,
Jake chiederà aiuto a Tim, che nel frattempo aveva trovato un lavoro
su un peschereccio, duro ma dignitoso, e si ritrova combattuto di fronte
all’appello del fratello, che infine deciderà di assecondarlo perché
“è sempre così. Difficilmente ci comportiamo in modo ragionevole
o razionale, specialmente quando c’è di mezzo l’amore, e la famiglia”.
La frase annuncia e nello stesso tempo lascia in sospeso molto di quello
che succederà dopo perché Jake e Tim, dovendo portare il cavallo oltre
la frontiera, negli Stati Uniti, s’imbarcano in un’odissea picaresca
e tragicomica. Tra l’altro riusciranno a caricarlo a bordo della barca
su cui lavorava Tim, sfidando una tempesta e un addio al nubilato (in
una delle scene più esilaranti del romanzo). Il viaggio ha qualcosa
di epico perché oltre alla frontiera geografica, Jake e Tim dovranno
superare il confine che li divide con una caparbietà che, in effetti,
riesce a portarli molto lontano. Dove arriveranno va scoperto leggendo
Poncho e Lefty perché i fratelli Harding impareranno, sul mare,
sulla strada e nella lotta per la sopravvivenza, che il loro legame
è l’unica possibilità che hanno. Questo, al di là dell’inevitabile scontro
con la gang che li segue, vale soprattutto quando dovranno affrontare
anche Maria, una ex di Jake, e la figlia Samantha. In una delle rare
pause delle traversie di Poncho e Lefty balleranno tutti insieme sulle
note di Atlantic City, di cui è inevitabile ricordare quel verso
che dice “qui ci sono solo vincitori e perdenti e non bisogna restare
intrappolati nella parte sbagliata”.
Difficile immaginare che Tyler Keevil non ci abbia pensato, perché non
è finita lì, e quel momento incide parecchio sull’evoluzione conclusiva
della storia che è prodiga di colpi di scena. Tyler Keevil, un novello
James Crumley che predilige le sfumature umane a quelle delle armi,
conduce Poncho e Lefty senza esitazioni con il ritmo di
una ballata che racconta di fughe e addii, conquiste e dolori, burrasche
e tormente dando una nuova e imprevista dignità ai ladri di cavalli,
uno dei mestieri più pericolosi e dannati di tutto il West. E, come
succede spesso da quelle parti, i fratelli Harding saranno stati dei
fuorilegge, sì, ma sono ancora dalla parte giusta. Consigliatissimo.
Townes van Zandt,
Pancho and Lefty (Heartworn Highways, 1975)
Pancho & Lefty, storia di una canzone
di
Fabio Cerbone
"Come tutte le canzoni di Jake, suonava ruvida
e ferita, come se le parole venissero fuori dalla sua gola lungo un
cavo arruginito. Qualcosa di doloroso da tirare fuori, ma che sarebbe
stato ancora più doloroso tenere dentro, se mi spiego".
(Tyler Keevil, Poncho e Lefty)
C’è modo e modo di essere
“fuorilegge”, lo potrebbero confermare anche i fratelli Tim e Jake Harding,
protagonisti del romanzo di Tyler Keevil: si può indossare una maschera,
interpretare un ruolo, come gli eroi sullo schermo del cinema, e si
può invece piegarsi al destino della propria condizione umana, alle
ombre che ti lacerano dentro (e magari scriverci una canzone, come fa
Jake con la sua inseparabile chitarra). È una differenza non da poco,
perché Dylan cantava: “Magari assomiglio a Robert Ford, però mi sento
Jesse James” (Outlaw Blues). E quel sentirsi come un bandito diventa
una sensazione che comincia a consumarti e al tempo stesso ti compiaci
di una scelta che sai ti condurrà prima o poi alla distruzione, o quanto
meno a pagarne il prezzo. È un po’ anche la storia della vita di Townes
Van Zandt, di quel texano dalla pelle dura e dal carattere fragile,
che occupava un posto defilato in mezzo alla nuova generazione di songwriter
si stava affacciando alla ribalta dell’altra Nashville. Quelle sue canzoni,
così introspettive e combattute, guardavano a un pubblico diverso e
di tutto il gran chiacchiericcio sui cosiddetti outlaw e il country
ribelle che spirava dal Texas, Townes non sapeva esattamente che farsene.
Era sempre fuori posto Van Zandt: non assomigliava a nessuno, aveva
l’aria di un hippie trasandato, che vestiva gli insoliti panni di un
cowboy più per caso che per decisione consapevole. Le canzoni, a volte
spietate e di un’intensità insostenibile nelle parole, parevano figlie
di un’America che si affacciava sull’orlo del precipizio. Anche
Pancho and Lefty - qui cambia una lettera dal romanzo di Keevil
ma la complicità nel cacciarsi nei guai è la stessa - apparteneva a
quella categoria, metafora di sconfitta e di tragica amicizia, sulle
ali di una libertà anarchica e individualista da vecchia frontiera americana.
Sarebbe diventata la carta d’identità di Townes Van Zandt, una “signature
song” fortunata in una carriera oscura e complicata, di quelle celebrate
con il senno di poi, come a restituire tutto il maltolto e gli onori
che Townes non aveva ricevuto in vita. Suo malgrado diventò anche uno
dei passaggi simbolici del sentimento outlaw di un’epoca: incisa nel
1972 per l’album The Late Great Townes Van Zandt (beffardo fin
dal titolo), uno dei tanti diamanti grezzi passati inosservati al tempo
dell’uscita, la ballata aveva tutte le caratteristiche per conquistare
un comune sentire. Lo spirito dei tempi era quello: Pancho e Lefty si
muovevano sullo scenario di un’esistenza romantica, senza barriere o
leggi a frenarne l’impeto, erano due figure che emergevano da un romanzo
di Larry McMurtry o da un film di Sam Peckinpah, una vicenda di amicizia
che agognava avventura, libertà, ma anche fuga e assenza di riparo,
situazioni che avrebbero indurito la pelle come il ferro e trasformato
il respiro in una bruciante fiamma di cherosene.
Pancho e Lefty scelgono la strada e la polvere e rinnegano la casa,
gli affetti, l’amore, ma Van Zandt, e qui sta la bellezza della sua
poetica, non indugia in dettagli rocamboleschi e luoghi comuni da spicciola
epica western. La sua scrittura sembra piuttosto figlia di quello stesso
crepuscolo che stava invandeno la nuova Hollywood cinematografica, mettendo
in discussione i dettami della tradizione: Pancho & Lefty non sonno
invincibili, semmai la vita li fiacca, in una lotta perenne tra guardie
e ladri, dove anche gli uomini di legge alla fine saranno accomunati
da un codice etico di rispetto reciproco. I federali gli danno la caccia,
ma ne temono in qualche modo la morte, perché sarebbe un po’ anche la
loro stessa morte. È una ballata, Pancho & Lefty, assai più complessa
e ricca di insidie di quello che potrebbe apparire in superficie, contiene
una quantità di luoghi oscuri e di “non detto”, come tutto ciò che agitava
la personalità molteplice dello stesso Townes Van Zandt.
Willie
Nelson Merle Haggard, Pancho and Lefty (1983)
Emmylou
Harris, Pancho and Lefty (1977)
La prima ad accorgersi
delle enormi potenzialità e del pathos della canzone fu una donna, Emmylou
Harris: questione di sensibilità e forse di una predilezione per
gli irregolari, tanto la Harris aveva avuto a che fare con i demoni
di un altro infelice ribelle, Gram Parsons. Pancho and Lefty
entrò nella scaletta di Luxury Liner, fortunato lp del 1977 che
sfruttava il momento d’oro dell’artista, ormai assurta a nuova regina
del country rock, capace di “saccheggiare” con la propria interpretazione
vecchi e nuovi classici del genere. Tuttavia, ci sarebbero voluti altri
cinque anni prima che Pancho and Lefty ottenesse davvero un riconoscimento
popolare, entrando nell’immaginazione più addomesticata e accettabile
della Nashville country, grazie alla versione che ne diedero i vecchi
compari Willie Nelson e Merle Haggard, pure loro in fondo
assediati dall’ingombrante etichetta di outlaw. Ironico e assurdo, se
ci pensate, eppure in termini commerciali e di ricezione del grande
pubblico, è proprio la loro interpretazione quella più nota: accompagnata
al tempo da un video in costume, con una convenzionale sceneggiatura
western a fare da sfondo e lo stesso Van Zandt chiamato come ospite
nel ruolo di un federale messicano, la canzone nel 1983 avrebbe raggiunto
la vetta dei singoli più venduti.
Un altro decennio e un rinnovato approccio alla tradizione, quello attuato
dalla cosiddetta scena alternative country, avrebbe riscoperto il ruolo
di una figura tormentata come quella di Van Zandt, ideale per esprimere
il punto di rottura, di rovesciamento dei canoni della canzone più tradizionale:
Townes, scomparso all’alba del 1997, non ha fatto in tempo a goderne
appieno i frutti, oggi ormai diventato un’icona, anche al di fuori degli
ambiti strettamente country folk, ma nel passaggio di testimone era
inevitabile che uno dei suoi figli prediletti, e come lui incline alle
ombre dell’esistenza, ne portasse avanti la lezione. È di Steve Earle,
infatti, l’ultima significativa ripresa di Pancho and Lefty,
che il cantautore texano incluse nell’album tributo del 2009, Townes,
fortemente voluto per salutare il suo maestro. Siamo sicuri però che
altre interpretazioni, già adesso, si faranno strada, come a sancire
una vita autonoma dal loro autore e dalla canzone stessa di Pancho e
Lefty: i due fuorilegge continuano a cercarsi e a vagare, là fuori,
lungo il confine con il Messico.