All’indomani della fine della guerra di secessione,
Walt Whitman scriveva che “grandi come sono, dunque, e destinati a essere
più grandi nel futuro, gli Stati Uniti non costituiscono altro che una
serie di passi ulteriori nell’eterno processo del pensiero creativo”.
Quell’auspicio poetico nel corso di più di due secoli ha trovato molte
risposte, alcune all’altezza, altre decisamente no, ma è proprio lo
stesso afflato che distingue la moltitudine di visioni americane collezionate
da Robbie Robertson in Testimony che coincidono, per scelta
e anche per dovere, con l’esistenza di quella singolare entità chiamata
The Band. Allen Toussaint incastrato nella neve di Woodstock per arrangiare
i fiati. Henry Miller che flirta con la moglie di Robbie Robertson.
Rick Danko che sfascia una macchina dopo l’altra. Garth Hudson che inventa
apparati sonori sempre più bizzarri. Richard Manuel che incanta con
la sua voce e sparisce tra le ombre. Levon Helm che molla Dylan. Dylan,
Robbie Robertson, Allen Ginsberg e Michael McClure insieme a San Francisco.
Dylan, ovunque.
La vita è un carnevale, ma nella sua variopinta essenza, la storia della
Band è stata quella di un tentativo di aprirsi uno spazio, di immaginare
un mondo, di coltivare frontiere d’America filtrate attraverso la musica.
Un’idea antica e moderna nello stesso tempo: l’alchimia della Band dipende
molto dalla loro condizione, eccentrica rispetto all’epoca, uno stravagante
equilibrio in un mondo nel caos. Quella sensibilità che cresce nella
cultura dell’esilio sia per i canadesi, sia per Levon Helm, costretto
a giocare in casa degli yankee. Gli spazi creati nascono dalla particolare
condizione di non essere a casa, non proprio esuli, ma con gli stessi
riflessi innati: stringersi attorno a un luogo delimitato, compattarsi
nei legami, restare sempre all’erta. Molti degli stessi strumenti tradizionali
(il violino, il mandolino, la fisarmonica) parevano conservati per l’evenienza
di un’altra partenza. A differenza del clamore e degli effetti speciali
dominanti, la Band si appropriava di uno stile austero, pastorale, quasi
un ritorno alla terra, ai suoi rituali e ai suoi passaggi naturali.
Non solo: la Band è stata una rock’n’roll band atipica, dove tutti suonavano
tutto e dove la distribuzione egualitaria delle voci ha dissimulato
l’assenza di un leader, di un frontman, allora ritenuto irrinunciabile.
Nella versione di Robbie Robertson valevano quanto una gang: “Erano
quelli giusti. Erano i guerrieri della strada con cui potevamo affrontare
la battaglia in ogni momento, in ogni luogo. Questa band era una vera
band. Nessun anello debole. Ognuno faceva la sua parte e anche molto
di più”. È uno spirito comunitario assecondato in modi diversi che
attinge da un’idea primordiale di America, rimasta in gran parte inevasa
e inesplorata. È il processo con cui la Band ha saputo vedere e leggere
attraverso la filigrana dell’american music nel suo complesso, dalla
più antica alla più moderna, da Muddy Waters a Jimi Hendrix, incontrati
lungo quell’evoluzione che ha portato Greil Marcus a dire: “La loro
musica ci diede la certezza che il paese era più ricco di quanto credevamo;
che possedeva possibilità che solo noi stavamo cominciando a percepire”.
Solo la Band e i Dead hanno saputo interpretare così a fondo le radici
americane, e non soltanto dal punto di vista musicale.
C’è un coraggio vistoso nell’intenso lavorio della
Band che in Testimony Robbie Robertson racconta con dovizia
di particolari e il cui frutto sono sonorità che spaziano dalle trame
rurali alle invenzioni più sofisticate, grazie alle tastiere di Garth
Hudson e Richard Manuel e al ritmo di Levon Helm e Rick Danko. La polpa
perfetta cresciuta attorno alla scoperta di Robbie Robertson di un nuovo
approccio al songwriting: “Non dovevi muoverti per forza in linea
retta, da A a B a C. Lo storytelling poteva essere un altro modo di
ascoltare la musica, un altro modo di mettere insieme i personaggi e
di cercare le cose meno prevedibili”. Avrà un impatto decisivo sulle
canzoni da Music From the Big Pink in poi: nell’immaginazione
di Robbie Robertson la Band è andata collimando con l’idea di
un’orchestra incastrata in una rock’n’roll band, una visione che non
era soltanto musicale, era una prospettiva sonora, fatta di un caleidoscopio
di rumori, tutti incastrati nelle canzoni, in quelle fantastiche canzoni
dove trovarono casa, tra esplorazioni nel futuro e nel passato, i frutti
proibiti della cultura e della storia americana. La Band ha scavato
un solco profondo nell’immaginario americano come non è riuscito a nessun
altro. Scoprire come hanno fatto attraverso la personalissima ricostruzione
di Robbie Robertson è un’esperienza e, non a caso, Chet Flippo li ha
definiti “lo Smithsonian del rock’n’roll”. Bella definizione, ma non
si possono archiviare come un reperto da museo. Aprirono un varco dentro
un continente, da cui, prima o poi, sono passati tutti. Ci sono arrivati
seguendo un percorso tortuoso che ebbe nel legame con Dylan il cardine
inevitabile, non solo per la condivisione degli storici concerti, dei
Basement Tapes e di Big Pink, ma per essersi accorti che era al
centro di un’intera apocalisse.
In Testimony, Robbie Robertson dedica,
come è naturale che sia, ampie dissertazioni sui movimenti di Dylan
e nella più precisa dice: “Il suo mondo ruotava intorno all’arte,
alla poesia e alla musica, e la scena era un turbinio che pareva spinto
da un’energia atomica. Che fosse uptown o downtown, le strade traboccavano
di musica. Mi sentivo come se avessi un posto in prima fila per assistere
all’esplosione culturale che stava cambiando il mondo”. Da quella
privilegiata posizione, ribadisce il concetto, a scanso di equivoci:
“Bob (Dylan) stava per aprire una porta che in ogni caso andava spalancata.
Per molti versi era come alle origini del rock’n’roll, due mondi diversi
che venivano in contatto per la prima volta”. La complicità di Dylan
contribuì a creare il mito di Woodstock, come se sulle soglie di un
antico villaggio avessero fatto crescere una nuova comunità. Anche nella
scelta del luogo, ben distante dai centri nevralgici dell’industria
dello spettacolo e dalle lussuose potenzialità degli studi di registrazione,
ricorda Robbie Robertson, “si trattava di rompere gli schemi, e più
inaccettabile era l’ambiente, più mi sembrava adatto”. Cercata,
scovata e aggiornata come un rifugio dalla tempesta, la vita a Big Pink
si avvicinava di più all’ideale diffuso di Woodstock del celebrato festival
che ne portava abusivamente il nome. Nello stesso tempo restava un luogo
ancorato alle radici di un’America misteriosa, oscura e in gran parte
“invisibile”. In un modo curioso, ma parecchio interessante, il leggendario
critico Ralph Gleason li paragonava a James Agee. Di sicuro sapevano,
Robbie Robertson più di tutti, che “ciascuno è intimamente connesso
col fondo, con l’estremo margine del tempo”.
Una distinzione utile a collocare la Band che, come James Agee ebbe
il suo fotografo di fiducia in Walker Evans, così trovò il complice
adatto a definirne l’immagine in Elliott Landy. Ricorda con precisione
Robbie Robertson: “Noi cinque eravamo per natura estremamente riservati,
e Levon (Helm) in particolare non amava farsi fotografare. Elliott (Landy)
si disimpegnò abilmente entro questi confini rendendosi quasi invisibile.
Girava con noi per Big Pink, e mi piaceva riguardare insieme a lui le
vecchie foto degli inizi del secolo. La cruda naturalezza delle sue
foto era in qualche modo connessa alla musica che stavamo facendo”.
Non si può distinguere l’epopea della Band dalle fotografie di Elliott
Landy: dalle sequenze nello scantinato di Big Pink alla Band allineata,
come prigionieri o fuorilegge in attesa di sentenza. Di giudizi ne sono
arrivati parecchi, ma la Band resta come una specie di sogno ad occhi
aperti che ha interpretato nel miglior modo possibile l’utopia del Woodstock
Dream, come l’ha chiamato Elliott Landy nel suo splendido libro fotografico.
Lo stesso Elliott Landy raccontava: “Se non avessi amato quella musica
non avrei potuto fotografarla. Il fascino dei musicisti di quegli anni
consisteva principalmente nel loro modo di suonare che attingeva ispirazione
dagli angoli più nascosti, profondi, intimi e poetici della loro anima”.
L’immagine dimessa e antica era in contrasto con gli eccessi dell’epoca
che si nutrivano di ben altri contrasti, luminarie e voli pindarici.
Anche lì, delimitarono un confine, e si scelsero un destino.
Scriveva Greil Marcus nel capitolo che gli ha dedicato in Mystery
Train: “C’erano eroi ed eroine dell’era appena finita con solo uno
o due anni da vivere; alcuni degli eroi della politica erano già stati
uccisi. Eravamo andati troppo lontano, senza raggiungere nulla. Con
Bob Dylan, The Band aveva visto dal di dentro molto di questo mondo,
lo aveva visto quando stava nascendo, addirittura aiutato a divenire;
ma vi passarono attraverso, sino a giungere in un posto che si costruirono
da soli. Ne uscirono, in modo molto cosciente, come un’alternativa”.
È vero, così come lo cantava Todd Snider in My Generation (Part 2)
all’epoca del suo esordio Songs For The Daily Planet: “Il
mio vecchio diceva che la generazione di Woodstock aveva trovato un
modo per costruire questa nazione, aprendo gli occhi e guardandosi attorno”.
Hanno ancora un senso queste parole, ma il mondo di Woodstock si stava
consumando rapidamente: Dylan se ne sarebbe andato (come ricordava nel
primo volume delle sue Chronicles: “Woodstock era diventata un
incubo, un luogo di caos”) e la Band, per una logica stringente, non
avrebbe tardato. La coincidenza è relativa: le rispettive strade si
stavano già separando e anche per loro era giunto il momento di prendere
una decisione.
Nel vento soffiavano aliti minacciosi, così come li racconta Robbie
Robertson in Testimony: “La Band era arrivata a un
bivio. Una tale miscela di emozioni può condurre alla confusione, e
la confusione può portare all’autodistruzione. La sensazione era che
non potevamo rompere qualcos’altro, avremmo rotto noi stessi. Nessuno
di noi intendeva distruggere una cosa che amavamo, ma non sapevamo come
fare. E non sapevamo dirci addio”. È proprio alla fine, nella celebrazione
di The Last Waltz che la Band arriva a definire un’idea formidabile
di America, quella che da Walt Whitman arriva ad Allen Ginsberg, attraverso
un carattere epico del linguaggio, così come nella musica, votata a
delineare paesaggi immaginari (e, nel villaggio globale, non c’è un
paesaggio più immaginario dell’America stessa). In questo il rapporto
con il cinema, che in Testimony scopriamo assiduo, deve aver
avuto un ruolo non relativo nella gestazione che ha portato a The
Last Waltz, al di là della collaborazione con Martin Scorsese. The
Last Waltz è una rappresentazione della vita di una rock’n’roll
band (speciale) dalla strada, che ormai era diventata “zona pericolosa”,
al teatro, un lungo addio che più volte è stato interpretato come il
saluto a un’epoca irripetibile, e non solo per la Band in sé.
La celebrazione nella cornice del palcoscenico diventa a sua volta un
luogo della mente dove trovare non l’America “profonda” (ma quanto deve
andare a fondo?), ma un’America ideale. Un trionfo e una sconfitta:
la Band non ha lasciato nulla in sospeso, ha chiuso i conti e tirato
giù il sipario. In molti hanno voluto vederci la fine di un’intesa stagione
all’inseguimento della felicità e della libertà, e forse c’è del vero,
come conclude Robbie Robertson in Testimony: “Eravamo
tutti preparati a un’apocalisse, a una rivolta, a un cambio della guardia.
Gli Stati Uniti, la Russia e la Cina stavano tutti testando le armi
nucleari. Un senso di distruzione incombeva sopra le nostre teste. Il
punk e l’hip hop voleva dare alla musica e alla cultura un bello schiaffo
in faccia. Sembrava che ognuno volesse rompere qualcosa”. Un nuovo
mondo avanzava e, come consumati attori teatrali, gli uomini della Band
fecero un passo indietro. Un gesto nobile, e poi, non si sono persi
niente.
La
recensione dal blog di BooksHighway:
bookshighway.blogspot.com/2019/12/robbie-robertson.html