"Down in the Delta"
Robert Palmer, Deep Blues. Una storia culturale e musicale
[ShaKe]

di Fabio Cerbone

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Scoprire da dove tutto è partito, un'opera di archeologia musicale che circoscrive una regione, un luogo, cittadine e piantagioni e un solo grande fiume, il Mississippi, che sono diventati nel tempo espressioni quasi mitologiche, cariche di un significato denso e misterioso per la storia stessa della musica popolare americana della seconda metà del Novecento, rock'n'roll in testa. Il saggio di Robert Palmer, Deep Blues. Una storia culturale e musicale, non è solo un "libro lucido, straordinario" come sentenzia il suo collega Greil Marcus nella quarta di copertina, una sorta di testo sacro della critica musicale da cui attingere aneddoti e vicende umane incredibili, ma è anche un tentativo coraggioso, forse il più sistematico tentato sino ad allora (lo scritto originale risale al 1981), di offrire una visione sociologica sulle origini e lo sviluppo del linguaggio blues calandolo nell'esistenza travagliata del popolo afroamericano, dai tempi della schiavitù al suo adattamento forzato al dinamismo delle metropoli del ventesimo secolo.

Ma che cos'è, alle sue fondamenta, il blues, e soprattutto il "deep blues", quella "forma letteraria e musicale che possiede qualcosa di mistico, che racconta la radice della gente nera in America"? Sembra essere, suggerisce Palmer, il sentimento di intere generazioni che risuona sulla corda di una chitarra, nei ritmi e negli accenti in cui un accordo blues viene pizzicato, soprattutto nella terra chiamata Delta, dove ogni cosa ha avuto inizio, quasi avvolta in un racconto dai contorni arcani. L'oggetto principale dell'indagine di Deep Blues è proprio il Delta, "una pianura piatta e fertile a forma di foglia che parte poco a sud di Memphis e arriva fino a Vicksburg", trecento chilometri di terra americana spesso dimenticata anche da Dio dove i neri più poveri e marginali hanno costruito un'idioma musicale che si perde nel tempo, fra canzoni che vengono continuamente riadattate, interpretate, letteralmente "rubate" e fatte proprie, un passaggio di testimone e di memoria che si compie continuamente da un bluesman ad un altro.

Robert Palmer, già collaboratore di Rolling Stone e per anni critico apprezzato sulle pagine del New York Times, musicista a sua volta, ricercatore sul campo e persino produttore discografico, è il personaggio più adatto per sondare questo terreno paludoso, è proprio il caso di dirlo, fatto di memorie e superstizioni, di anelli concentrici che legano un musicista all'altro fino a perdersi nelle maglie confuse del passato. Il suo approccio è spesso antropologico, con un carattere etno-musicale e una preparazione notevoli, in special modo nella prima parte del libro, quella per forze di cose più inesplicabile viste le scarse fonti primarie: dal Senegambia e poi dalla cosiddetta "Costa degli schiavi" (Sierra Leone, Liberia, Ghana, Costa d'Avorio…), dal Congo e dall'Angola giungono uomini ma anche tradizioni, lingue, musiche, ritmi e un po' del fascino racchiuso in parole e tecniche come call and response, voice masking, strumenti come il banjo o credenze popolari come mojo e boogie, che hanno una loro collocazione proprio in questa commistione africana. Poi sarebbero arrivate le piantagioni e Deep Blues ci conduce esattamemente in quei campi, alla Stovall Plantation, o presso la Dockery's Farm, lì dove il "deep blues" ha cominciato a prendere forma concreta, a farsi testimonianza attraverso "figure mastodontiche che sembrano avere espresso alcune delle massime aspirazioni dell'America contemporanea e i suoi più oscuri segreti". I loro nomi sono quelli di Charley Patton e Robert Johnson, di Muddy Waters e Howlin' Wolf, di mille altri musicisti, istintivi, autentici, che dal teatro del Delta sono partiti per diffondere quella particolare combinazione di narrazione e musica.

"Il blues del Delta è un linguaggio musicale raffinato, estremamente ambiguo e ingegnosamente sistematico", afferma Palmer, che sceglie di compiere il suo viaggio e di soffermarsi su quella particolare striscia geografica degli Stati Uniti, raccontandoci dei bluesman che ci sono nati, che l'hanno attraversata e poi si sono trasferiti, soprattutto a Chicago. Scorrono così i luoghi della rappresentazione del "deep blues", soprattutto raggruppati fra il Mississippi e l'Arkansas, cittadine e contee dai nomi curiosi come Coahoma, Merigold, Vicksburg, Lula o Hazelhurst, ma anche grandi centri urbani come Clarksdale, Helena e Memphis, dove juke joint e localacci malfamati, teatri di strada e medicine show, finanche radio, studi di incisione ed etichette discografiche hanno esteso la platea degli ascoltatori, da quella odiosa definizione di "race music", musica per soli neri, alla essenziale miccia che avrebbe acceso il fuoco del rock'n'roll, conquistando il pubblico bianco.

La figura centrale e il musicista che accompagna Robert Palmer in questo percorso lungo un secolo è quella di Muddy Waters: non solo perché Palmer stesso lo ha intervistato più volte, contribuendo con episodi e testimonianze eccezionali al racconto di Deep Blues, ma anche perché Waters è stato il trait d'union straordinario fra il mondo ancestrale del Delta rappresentato da Charley Patton, prima grande icona della musica del Delta, e il blues elettrico e moderno che avrebbe attecchito a Chicago, rinnovando la tradizione. Così ci si rende conto di come "cantare il blues prevede millimetriche alterazioni del timbro vocale, infime variazioni di tempo e inflessione, finissime gradazioni della tonalità", tecniche che Muddy Waters aveva appreso spontaneamente nella piantagione di Stovall e aveva conservato nella sua migrazione a nord. Sarà per questo motivo che i bianchi ci hanno messo del tempo per dominarlo e forse non ci sono ancora riusciti, e che persino un giovane nero, nato distante dalla storia del Delta, oggi non potrebbe capire quel linguaggio fino in fondo.

Waters, e prima e dopo di lui gli altri giganti del "deep blues" (nel libro compaiono come fantasmi le figure di Tommy Johnson, Johnny Shines, Robert Nighthawk, Elmore James…), ci erano invece cresciuti dentro con tutto il carico di fatica e gioia, sofferenza e vitalità che le loro vite avevano vissuto in prima battuta. Lo schema cronologico adottato da Robert Palmer ci accompagna attraverso queste vicende umane, partendo dai dettagli confusi, misteriosi, che circondano i volti e la musica di Charley Patton e Son House, guarda caso entrambi uomini tormentati, che volevano farsi predicatori, combattutti fra paradiso e inferno, e ci porta naturalmente verso i loro discepoli, passando per la leggenda di Robert Johnson e l'irruenza con la quale la sua musica ha fatto compiere il salto verso la modernità di questo stile, guardando al gesto del singolo e cantando le sue paure.

È uno degli snodi cruciali individuati da Deep Blues, insieme alle peripezie di Sonny Boy Williamson II e Robert Lockwood jr, entrambi testimoni del famigerato "King Biscuit Time" di Helena (la trasmissione radiofonica sponsorizzata dall'omonima farina per biscotti), che avrebbe diffuso il blues in tutto il sud, attraendo nuovi adepti, e così al citato Muddy Waters che si trasferisce a Chicago (con la storia della città e dei suoi quartieri neri, di Maxwell street e della Chess records) e si inventa con Howlin' Wolf, Little Walter e Jimmy Rodgers il periodo d'oro del Chicago blues (definito da Palmer "il boogie planetario"), fino ad infiltrarsi fra le mura della Sun records di Memphis, là dove un ragazzo bianco di Tupelo sarebbe diventato "The King", vendendo all'America e al mondo quel sogno ritmico e liberatorio che era nato lungo le sponde del Mississippi.


La playlist ispirata a Deep Blues:



 


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