Don Winslow
Corruzione

[Einaudi]
pp. 542

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Dennis Malone ha dettato legge nelle strade di New York con la Manhattan North Special Force, un team della polizia chiamato, nel gergo di Harlem, Da Force. Per vent'anni "la sua città, la sua zolla, il suo cuore" hanno combaciato, poi qualcosa si è rotto, e si è ritrovato a guidare una folla di fantasmi verso un destino segnato. Don Winslow sa di mettere mano a una materia instabile e scivolosa e non concede distrazioni. Il ritmo tambureggiante, noncurante di qualche screpolatura, è un tuffo senza rete. Seguire il sergente Malone negli androni e nelle "verticali" di Harlem non prevede biglietto di ritorno. E' un naufragio metropolitano, ogni capitolo sempre più a fondo. Il confronto, e poi scontro, tutto intestino all'unità di polizia, è il primo sintomo dell'ambivalenza che regna sovrana nel romanzo. Come è nella natura stessa della Corruzione, dove vittima e colpevole sono intercambiabili, tutto è doppio, e non solo sulla scena del crimine. Denny Malone e la sua squadra hanno famiglie e figli, ma anche una vita notturna assai movimentata, con vizi e lussi, amanti, fidanzate e puttane, alcol (un fiume) e droghe, rituali e segreti. A maggior ragione, per Da Force, "non importa quello che fai o come lo fai (finché non finisce sui giornali), basta che tieni gli animali dentro le gabbie". Finché un procuratore con una carriera spianata davanti non incastra Malone, scoperchiando un vaso di Pandora dagli esiti imprevedibili, visto che la Corruzione è endemica e mutevole: assume forme diverse più si risale la scala gerarchica, dal capo della polizia al sindaco fino a Washington, dato che "il sistema americano prevede che verità e giustizia si salutino se si incrociano in corridoio, magari si scambino gli auguri di Natale, ma il loro rapporto finisce lì". La metafora è calzante, la Corruzione si regge sulla condivisione, sull'indifferenza, sull'omissione e sul codice del silenzio. Le distorsioni sono molto più complesse e senza accorgercene ci ritroviamo a chiederci i motivi dell'empatia con Denny Malone che è corrotto fino al midollo e "infame". Forse perché, anche se si crede il re, lui e la sua squadra sono soltanto le pedine sacrificabili di una partita più grande. Forse perché "i poliziotti vedono prima le vittime e poi i colpevoli", e almeno questo gli va riconosciuto, ma in fondo è soprattutto perché è soltanto l'ultima preda di una feroce catena alimentare, e all'alba di ogni giorno è costretto a dirsi che "a ogni modo, racconti a te stesso quello che serve per fare ciò che devi fare. E qualche volta persino ci credi". Trascinante.

Brian Panowich
Bull Mountain

[NNE]
pp. 295

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Per la famiglia Burroughs l'omicidio è qualcosa che sta tra l'incidente e l'ineluttabile necessità di rimuovere un ostacolo, fosse anche il ramo di un albero genealogico che gronda sangue. Gareth, il padre della discendenza protagonista in Bull Mountain, Clayton e Halford (nonché di Buckley, ormai fantasma) ha visto uccidere Rye alias Riley, il fratello di suo padre Cooper durante una battuta di caccia. L'hanno sepolto nel bosco, sulle colline impervie della Virginia, senza esitare: il dominio del clan dei Burroughs non riguarda soltanto il prosperare dei traffici illegali, che nel corso degli anni sono passati dal contrabbando di whiskey, alla marijuana e alle metanfetamine (sempre con il corollario di uno sproposito di armi e munizioni), ma anche e soprattutto il controllo del territorio. Le regole vengono dettate dal primordiale principio della forza bruta applicata senza avvertimento, con una crescente potenza di fuoco e non c'è distinzione possibile: gli affari sono la famiglia, e la famiglia è Bull Mountain. La variabile nella stirpe dei Burroughs è Clayton, il più giovane essendo nato nel 1972, che viene eletto sceriffo, un paradosso che rende bene l'idea del clima di Bull Mountain, perché nessuno è così temerario da candidarsi contro un Burroughs e d'altra parte lo votano tutti. Lui scende a valle e si sposa, mentre il fratello, Halford, di dieci anni più vecchio, rimane a presidiare le fortezze e i commerci nei boschi. Il tentativo di Clayton di lasciarsi alle spalle le radici di Bull Mountain, dato che "per quanto ostile, quel posto era casa sua", viene messo a rischio dalla missione di Simon Holly, un agente federale che si presenta nell'ufficio dello sceriffo con un'ambigua offerta per i Burroughs, ma i cui veri obiettivi rimangono oscuri e inconfessabili. E' un nodo scorsoio scorre lungo i crinali fino al centro della contea, e viceversa, lasciando ben poca speranza sul terreno perché, come dice James Ellroy, Bull Mountain "ha tutto: whiskey, droga e caos". La scrittura di Brian Panowich punta all'essenziale, è ruspante e avvincente, non cerca né il colpo di scena, né la suspense: è chiaro in ogni singolo passaggio di Bull Mountain che la famiglia Burroughs è la nemesi di se stessa. Dalla wilderness che, oltre a offrire una casa garantisce una sorta di una sorta di indipendenza inviolabile e incontrollabile, alla proprietà e al disinvolto uso delle armi, dalla cruda e spartana realtà "white trash" alla cultura dei fuorilegge e per estensione dell'outsider, Bull Mountain è un concentrato esplosivo che non lascia scampo. Colonna sonora, obbligatoria: Lynyrd Skynyrd, a tutto volume.

   

Ben Watt
Un paziente. Storia di una malattia rara

[Carbonio]
pp. 205

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Ricoverato d'urgenza con lancinanti dolori addominali, Ben Watt si deve confrontare con gli orizzonti della malattia e del dolore. Una condizione aggravata da un paio di variabili specifiche. A prima vista, il suo "caso speciale" non sfugge ai luoghi comuni legati ai vizi e agli abusi dei musicisti e perfino una frettolosa analisi del fratello gli ribadisce che è tutto colpa di un "modo di vivere privo di senso". D'altra parte, nonostante una lunga teoria di esami, tutto quello che il personale medico riesce a scoprire è un "disordine multisistemico", definizione tanto elaborata quanto vaga. Inchiodato nel suo letto, diventa Un paziente nel senso più intimo della parola. Nella sopportazione quotidiana, nell'osservare la mutazione dei rapporti e dei legami, nel turbinio dei pensieri, Ben Watt ricorda: "Mi sembrava di essere una creatura in metamorfosi, che passa dalla vita sott'acqua a quella sulla terraferma, sviluppando una nuova identità. Ed era già come se navigassi verso qualche altra parte. Il mio senso dello spazio e del tempo pareva regredire. La minaccia invisibile che mi teneva lì bloccato e il desiderio di andarmene via si erano allentati. Adesso tutto ciò che mi interessava era rendere le cose sopportabili per i successivi venti minuti o giù di lì". Ci vogliono diverse settimane prima che gli venga diagnosticata "una malattia autoimmune chiamata sindrome di Churg Strauss, un disturbo piuttosto raro che colpiva individui con trascorsi d'asma e febbre da fieno i cui sistemi immunitari imprevedibilmente e in modo violento reagivano dopo un ulteriore ma non necessariamente collegata, stimolazione antigenica". Sottoposto a diverse operazioni chirurgiche (all'intestino), a diete e terapie, Ben Watt passa in ospedale tutta l'estate del 1992 e Un paziente non è soltanto il diario dettagliato e puntiglioso della degenza. Con grazia, a volte addirittura con ironia, è una riflessione sulla nostra fragilità, di solito nascosta da "un differente ritmo che si svolge dentro le nostre teste in continuazione, un flusso continuo, una corrente di pensieri e parole, che vociano e rimbalzano nel nostro cranio per tutte le ore di veglia". Costretto a spogliarsi (metaforicamente e non), indifeso, debole, annoiato, a Ben Watt, e per esteso a tutti i "pazienti", resta un'unica protezione nell'elogio della normalità fino a quando un senso non giunge "dalla solitudine e dalla calma, dall'accettazione, dall'adattabilità, dalla gratitudine e dal fare pace con se stessi". Il lieto fine non era scontato, ma dopo essersi ristabilito, Ben Watt ha ripreso e ampliato le sue attività discografiche, pubblicando tra l'altro uno dei suoi album più belli, Fever Dream, giusto l'anno scorso, come è noto.

Gianfranco Nissola
Miles davis. Principe delle tenebre

[Arcana]
pp. 287

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Quello che Gianfranco Nissola nette note bibliografiche chiama "impianto narrativo" è proprio il modello che rende originale e particolarmente interessante questa bella biografia di Miles Davis. Pur avendo come protagonisti unici e assoluti Miles e la sua musica, le pagine scorrono come quelle di un romanzo o, per essere più precisi, come la sceneggiatura di un film, senza complicate disquisizioni tecniche e strumentali, senza teorie e dimostrazioni. C'è più vita che musicologia nello spirito del Principe delle tenebre e se Gianfranco Nissola si concede qualche confidenza, lo fa in virtù di passioni inalterate e di conoscenze indiscutibili: il tono è sempre appagante e le analisi, pur nella chiarezza stilistica, molto approfondite. L'introduzione alla personalità e alla psicologia del Principe delle tenebre basterebbe a inaugurare le ricerche per un altro libro ancora: "Miles è fiero e orgoglioso, avverte attorno a sé la solitudine, che però non eleva a status, ma usa per modellare il suo temperamento, quasi fino alla soglia della rassegnazione. Solitudine e rassegnazione, due elementi in cui tutta la musica di Miles è imperniata e dei quali nessuno saprà meglio di lui esprimere la sua poetica musicale". In effetti, nonostante la lunga teoria di grandi maestri, leader, complici e allievi (da Bird, Dizzy, Monk, Mingus, Coltrane, Bill Evans, Gil Evans fino a Marcus Miller, li trovate tutti) l'immagine di Miles Davis si è sublimata tout court nella musica. Questo, in estrema sintesi, era (e rimane in questa nuova edizione ampliata e aggiornata) il nucleo ideale del racconto di Gianfranco Nissola. Al netto di tutti i conflitti e le distorsioni esistenziali (a partire dall'uso e dall'abuso della droga, prima di tutto), Miles Davis e la sua musica coincidono, e sono sempre tornati a sovrapporsi e a rinnovarsi senza sosta, fino al capolavoro di Tutu. Il riassunto più esplicito si trova, non a caso, nella parte centrale del Principe delle tenebre dove Gianfranco Nissola scrive: "Miles fa parte di una generazione di musicisti che, per primi, si impegnano per dar vita a un'originale forma d'arte. E questo avrebbe potuto essere una cosa buona, una cosa che prendeva forma in quel preciso istante: qualcosa di entusiasmante che non c'era un attimo prima e che sarebbe stato diverso un attimo dopo, una volta che sarebbe stato espresso; l'esaltazione di un attimo irripetibile che si può ben comprendere perché attrae a sé e coinvolge". Una rivoluzione continua che nel Principe delle tenebre viene destinata a una ricostruzione fedele che coincide con la realtà, che è poi quella di un vero, inimitabile genio del ventesimo secolo. Consigliatissimo.

   

Nicola Gervasini
Musical 80

[WLM edizioni]
pp. 206

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Nicola Gervasini sovrappone (almeno) tre canovacci: una voce narrante a cui non sfuggono alcune sfumature autobiografiche, una rivisitazione parziale degli elementi culturali del decennio evocato direttamente nel titolo e un giallo che è la pista da seguire per incrociare e comprendere la somma delle parti (e altro ancora) di Musical 80. Il biglietto da visita con cui si presenta il commissario Paolo Manfredi, protagonista indiscusso di Musical 80 è fin troppo eloquente: "Ve l'ho detto che avrei voluto essere un grande scrittore? Sì, ve l'ho detto. Ma voi avete pensato bene di dimenticare il particolare. Siete solo interessati a sapere chi è l'assassino, voi, mica alle mie paturnie. Magari state saltando pure le parti in cui mi lascio andare ai ricordi per arrivare al punto". L'omicidio è quello di Zara Blacks alias Sandra Puverti, un'attrice che ha diviso la sua carriera tra l'anonimato e qualche pruriginosa cavalcata erotica. Le cause del decesso, prima un'overdose di farmaci e poi un cappio al colle, spalancano l'ipotesi dell'omicidio, visto che anche nella bucolica e lentissima realtà di Urbino, dove è ambientato gran parte di Musical 80, suicidarsi due volte è impossibile. Ridisegnare le parti elementari della vita di Zara Blacks porta il commissario Manfredi a fronteggiare, ancora una volta, il rebus irrisolto degli anni dei Frankie Goes To Hollywood e di Prince, degli U2 e di Springsteen, dei Guns'n'Roses e dei Duran Duran, di John Mellencamp e di Tracy Chapman. Sono tutti parte, in un modo o nell'altro, della colonna sonora di Musical 80 che è lo spettacolo (a tutti gli effetti un racconto a sé dentro il romanzo) da cui partono le macchinose indagini per l'omicidio di Zara Blacks. Alternando ricordi e rimpianti, un matrimonio fallito alle spalle e molti dubbi sul proprio ruolo del mondo, il commissario Manfredi scopre un vasto sottobosco di velleità e ambizioni nella gran parte dei casi destinate a brillare per un istante per poi di nuovo sprofondare nell'oblio. I gironi peggiori, quelli dello spettacolo e della politica, sono complici e contigui e offrono un assist fin troppo ricco a Nicola Gervasini che in Musical 80 condensa un'articolata e luccicante visione pop con una sottile e intelligente suggestione storica, visto che, dietro le apparenze e la superficie, quel periodo è stato costellato torbidi (e truci) movimenti sotterranei. La soluzione del caso è dietro l'angolo (e ogni riferimento alla realtà, per Zara Blacks, non è casuale) e porta alla rocca di San Leo, al confine meridionale dell'Emilia Romagna con le Marche. Un luogo le cui porte si spalancano su altre alchimie che Nicola Gervasini è scaltro e sornione quel tanto che basta da lasciarle in sospeso, in attesa del sequel, o di un nuovo romanzo.

J.D. Vance
Elegia Americana

[Garzanti]
pp. 254

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Tutti i luoghi comuni della cultura hillbilly, i limiti geografici, la campagna, le montagne, la natura stessa degli Appalachi, sono solo la cornice di quel "mondo interrotto", come lo definisce J.D. Vance, la cui stessa esistenza è da una parte uno schiaffo all'autorità, e dall'altra una miscela esplosiva di analfabetismo, alcol, droga, violenza domestica (e non) e miserie assortite. J. D. Vance nasce e appartiene a "una banda sgangherata di hillbilly che cercavano la propria strada" e la sua Elegia americana è un tentativo di tenere a bada "i mostri" in una forma strana, un ibrido tra saggio e autobiografia. Non una testimonianza facile, segnata dalle brucianti e ricorrenti ferite psicologiche: cresciuto dai nonni, J. D. Vance viene da una famiglia a "porte girevoli" sul lato paterno, con una madre tossicodipendente e, più di tutto, in un contesto generale dove "il degrado può anche sfuggire ai residenti perché è un processo graduale: assomiglia più a un'erosione che a uno smottamento". La condizione rurale, già aspra, è attraversata dal processo storico di deindustrializzazione e delle conseguente migrazioni che rivelano come l'etica del "duro lavoro" non sia più sufficiente (se mai lo è stata) a inseguire un'idea di successo e di felicità. La povertà di un'America sconosciuta e nascosta diventa via via più imbarazzante e le vicende personali di padri e madri confusi (se non pericolosi) e in genere "sopravvissuti" intersecano la ricostruzione degli aspetti sociali ed economici che distanziano la realtà hillbilly dal mito e dalle mistificazioni del cosiddetto sogno americano perché "le famiglie della classe operaia americana vivono un livello di instabilità che non ha uguali al mondo". Le forme di comunicazione claudicanti, nel migliore dei casi, con un vocabolario ridotto e riferimenti culturali legati solo alle canzoni (Hank Williams, Johnny Cash, Dwight Yoakam, Lynyrd Skynyrd), l'uso persistente della violenza, verbale e non, ricorda a J. D. Vance che "a volte essere un hillbilly voleva dire non capire la differenza tra amore e guerra". Lo scontro con l'idea dell'appartenenza a una comunità, figlia di "una cultura che promuove sempre più il decadimento sociale anziché contrastarlo", i fantasmi dell'infanzia che ritornano, hanno portato J. D. Vance a sforzarsi per trovare una tregua con se stesso e un'educazione migliore, fino a laurearsi a Yale e a diventare avvocato. Più che un'Elegia americana, rimane un'indefinita e ruvida apologia hillbilly.


 


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