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Il road movie che si dirige Verso nord parte dalle disadorne
stanze di Motel Life (Fazi) e attraversa un deserto di insegne al neon, conversazioni
notturne, parcheggi, K-Mart, Flying J e altre amenità americane viste tra i fari
di un'automobile e l'alone velenoso della televisione. Due luci che non si spengono
mai nelle quarantacinque ballate che compongono Verso nord e il cui tenue bagliore,
quell'aura crepuscolare, decadente e sottilmente maliconica che ben interpretano
i Richmond Fontaine, è la cifra più evidente dello stile di Willy Vlautin.
La sua protagonista, Allison Johnson è la guida che segue nei bassifondi di una
civiltà che sta frugando della polvere della Levelland per cui è sempre colpa
dei messicani e dei "negri", una specie di sottoproletariato che vive quello che
una volta si chiamava il sogno americano sempre come un'imposizione, figurarsi
se riesce a mettere almeno un trattino tra speranza e utopia. La confessione di
Allison, in forma di lettera che spedisce a se stessa mentre ascolta un greatest
hits di Patti Page, è laconica: "Hai rovinato tutte le cose belle che ti sono
capitate nella vita, hai fatto andare tutto sempre più a rotoli. Andrai all'inferno.
Non importa quel che succede, tu comunque starai all'inferno per sempre". Dove
abbiamo già sentito queste parole? Hank Williams? Johnny Cash? Sì, sono loro le
spiritual guidance di Willy Vlautin, anche se Verso nord è una versione delle
Motel Chronicles di Sam Shepard aggiornate con in corpo meno whiskey e più speed.
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Chuck
Rosenthal
A Ovest dell'Eden
[Mattioli
1885] pp. 245
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Le Cronache magiche da Los Angeles di Chuck Rosenthal sono la rivelazione
di uno scrittore geniale e sorprendente che si applica alle parole con l'idea
che siano "sono un miracoloso bisturi con cui i miracoli sono dissezionati". La
sua fiction-non-fiction, che lui chiama "giornalismo magico", è radicata in estremi
che stanno tra Lester Bangs, Hunter S. Thompson e Kurt Vonnegut, anche se in realtà
il suo bagaglio è pieno zeppo di regali della Beat Generation. Come ricorda Nicola
Manuppelli nella concisa ed efficace postfazione, Chuck Rosenthal "ha scritto
molti libri strani. Il più strano di tutti è forse Jack Kerouac's Avatar Angel".
Meriterebbe il premio Pulitzer solo per il titolo, poi la storia in sé è un delirio
psichedelico (Kerouac torna e vede Reagan in televisione pensando sia un film,
invece è la realtà ed è il presidente degli Stati Uniti d'America) anche se con
Chuck Rosenthal bisogna stare molto attenti a disquisire di visioni e realtà.
Nel corso frenetico di A Ovest dell'Eden, lui e/o il suo alter ego
Shark Rosenthal ammette di essere arrivato "a scoprire che c'erano molte illusioni
a cui gli americani credevano, dalle assicurazioni sulla vita alle polizze varie,
al credere che la cosa che hai comprato e pagato ti sarà consegnata a domicilio.
Fino all'illusione di vivere in una casa o in un cosmo funzionante". E il palcoscenico
in cui si svolge una trama-non-trama che è tutto linguaggio, è Los Angeles, il
non luogo per eccellenza. Da scoprire, assolutamente.
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David
Byrne
Come funziona la
musica
[Bompiani]
pp. 345
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Come funziona la musica è destinato a cambiare in modo sostanziale
quel luogo comune, ispirato da Frank Zappa, per cui scrivere di musica è bizzarro,
inutile o addirittura dannoso. Prima di tutto perché David Byrne affronta
l'argomento con il piglio del narratore e sapendo che "ci sono due conversazioni
che si svolgono contemporaneamente: la storia e il modo in cui la storia viene
raccontata", riesce a restare in equilibrio, con un tono appassionato e nello
stesso tempo molto efficace e articolato. Dipende anche dalla scelta di affidarsi
a un linguaggio chiarissimo nella sua ricchezza, una scelta dovuta al fatto che
"la semplicità è una sorta di trasparenza in cui leggere sfumature possono avere
un effetto enorme. Quando tutto è visibile e pare banale, i dettagli assumono
un significato più grande". Per capire Come funziona la musica David Byrne
parte dal definire quello che chiama, più di una volta, "il contesto", ovvero
le condizioni che determinano la percezione della musica. Essendo "roba forte",
come dice in un altro, eloquente passaggio, vale davvero la pena di confrontarsi
con un'analisi molto scorrevole nella forma ed estremamente densa nella sostanza
dei contenuti, che vanno dall'essenza filosofica e artistica della musica ad argomenti
più prosaici ma non meno complessi, come l'evoluzione tecnologica dei prodotti
discografici e le condizioni (disastrate) del loro mercato. Davvero un gran bel
libro, compreso un sentito e dettagliato ricordo degli inizi dei Talking Heads
al CBGB's, dove tutto è cominciato.
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E' la storia di un lungo secolo di musica americana quella che attraversa
"le avventure di dodici grandi canzoni tra Broadway e jazz". Si va dalla classicissima
Over The Rainbow, già resa immortale da Judy Garland e poi diventata una
"trascrizione standard" a partire da Art Tatum e si arriva all'immancabile bonus
track (numero tredici, of course) che è Nothing To Lose dal songbook di
Henry Mancini. Pur essendo un noto e perseverante musicologo, quindi portato a
vivisezionare la musica, Luca Bragalini riesce nel "poco standard" tentativo
di inseguire la materia inafferrabile delle canzoni attraverso il tempo, le interpretazioni,
le variazioni d'umore o di stile. Come una piccola talpa, cieca e laboriosa, se
ne va a testa bassa scavando nei meandri, spulciando tra spartiti e appunti di
lavorazione, cercando di comprendere le modulazioni del linguaggio, quello delle
parole e quello della musica, che una canzone può accogliere e/o subire nel passaggio
da Nina Simone a Janis Joplin fino a Chet Baker, come è nel caso (esemplare) della
storia di Little Girl Blue. Visto che nello stesso modo si parla di
Georgia On My Mind piuttosto che di My Favorite Things, di Autumn
Leaves o di Someday My Prince Will Come (Miles Davis è uno dei fantasmi
più assidui in queste pagine), Storie poco standard ha il pregio
assoluto di riportare al centro dell'attenzione quella che è l'essenza della musica
americana, la canzone. "Popular song are songs that become popular" dice Irving
Berlin nell'introduzione e per capirlo non si può tradurre, bisogna arrivare in
fondo a queste Storie poco standard e molto utili.
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Ci va una vita, anzi due, a scrivere un libro così, che dietro l'apparenza
del manuale per una particolare frangia di scrittura creativa cela una raffinatissima
antologia letteraria che va da Jack London a Franz Kafka e una prospettiva singolare,
così descritta nell'introduzione: "La strada per raggiungere una visione personalizzata
del pianeta vivente passa per la riflessione individuale, sviluppata stando concretamente
nel paesaggio o accanto a creature diverse dall'uomo. Gli elementi della natura
e gli esseri viventi sono i protagonisti: mondi popolati da acqua, neve, alberi,
rocce, animali, in una rete complessa di relazioni". Davide Sapienza e
Franco Michieli scavano a mani nude proprio in quell'humus e al destinatario,
a chi si accinge a "progettare un testo ed esercitarsi nella scrittura" non impongono
modelli, strutture, schemi, piuttosto lo accompagnano con una vasta serie di indizi,
sempre puntuali nel tracciare il sentiero perché "è evidente che l'urgenza di
raccontare nasce da qualcosa di intimo e di vissuto. Ciò che non ci autenticamente
tocca difficilmente può stimolare in noi una sorta di missione. Nel nostro caso,
quindi, la narrazione nasce da una condivisione con la condizione della natura
o di particolari creature. Non è indispensabile aver sperimentato la wilderness:
possiamo essere colpiti dalla natura anche in piena città, coinvolti da un animale,
da una pianta, dal cielo, pur circondati da un contesto artificiale". Da portare
in viaggio, sempre.
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Con una vocazione più sparagnina che low cost, Marco Drago sceglie
di non passare un'altra estate a ubriacarsi al Maltese e si inventa un suo personale
master in linga teutonica a Magdeburgo. Per collegare il punto di partenza e quello
che poi racconta Una prigione grande come una nazione servono, come
minimo un paio di nozioni geopolitiche sui luoghi evocati già nelle primissime
pagine. Il Maltese è un posto fantastico (nel senso più letterale del termine)
sulle colline dell'Astigiano che condensava sotto lo stesso tetto la redazione
dell'omonimo giornale letterario, una delle migliori rock'n'roll location che
siano mai esistite in Italia, una casa comune e chissà che altro. E siamo solo
all'inizio. Magdeburgo, è utile (parecchio) ricordarlo, nell'estate del 1988,
stava dall'altra parte. C'era l'Unione Sovietica, c'era la Stasi e con Marco Drago
c'erano studenti (studenti?) in arrivo da tutta l'Europa e da mezzo mondo che,
neanche a dirlo, sorvolavano sulla guerra fredda non meno che sulla natura della
loro permanenza. "Il campus faceva venire voglia di strafarsi ascoltando i R.E.M.
e Zappa ed è quello che si faceva con regolarità" ammette il candido Marco Drago,
solo che il rock'n'roll non era proprio popolare nella porzione di Germania guidata
da Erich Honecker. La vacanza si trasforma in un'avventura non prima di amarezza
e di paura: nell'aria ci sono due mondi che stanno venendo giù e uno è l'allegra
gioventù del protagonista che con Una prigione grande come una nazione
trova il suo "grande freddo" e il suo romanzo più personale.
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