Willy Vlautin
Verso nord

[Quarup]
pp. 192

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Il road movie che si dirige Verso nord parte dalle disadorne stanze di Motel Life (Fazi) e attraversa un deserto di insegne al neon, conversazioni notturne, parcheggi, K-Mart, Flying J e altre amenità americane viste tra i fari di un'automobile e l'alone velenoso della televisione. Due luci che non si spengono mai nelle quarantacinque ballate che compongono Verso nord e il cui tenue bagliore, quell'aura crepuscolare, decadente e sottilmente maliconica che ben interpretano i Richmond Fontaine, è la cifra più evidente dello stile di Willy Vlautin. La sua protagonista, Allison Johnson è la guida che segue nei bassifondi di una civiltà che sta frugando della polvere della Levelland per cui è sempre colpa dei messicani e dei "negri", una specie di sottoproletariato che vive quello che una volta si chiamava il sogno americano sempre come un'imposizione, figurarsi se riesce a mettere almeno un trattino tra speranza e utopia. La confessione di Allison, in forma di lettera che spedisce a se stessa mentre ascolta un greatest hits di Patti Page, è laconica: "Hai rovinato tutte le cose belle che ti sono capitate nella vita, hai fatto andare tutto sempre più a rotoli. Andrai all'inferno. Non importa quel che succede, tu comunque starai all'inferno per sempre". Dove abbiamo già sentito queste parole? Hank Williams? Johnny Cash? Sì, sono loro le spiritual guidance di Willy Vlautin, anche se Verso nord è una versione delle Motel Chronicles di Sam Shepard aggiornate con in corpo meno whiskey e più speed.

Chuck Rosenthal
A Ovest dell'Eden

[Mattioli 1885]
pp. 245

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Le Cronache magiche da Los Angeles di Chuck Rosenthal sono la rivelazione di uno scrittore geniale e sorprendente che si applica alle parole con l'idea che siano "sono un miracoloso bisturi con cui i miracoli sono dissezionati". La sua fiction-non-fiction, che lui chiama "giornalismo magico", è radicata in estremi che stanno tra Lester Bangs, Hunter S. Thompson e Kurt Vonnegut, anche se in realtà il suo bagaglio è pieno zeppo di regali della Beat Generation. Come ricorda Nicola Manuppelli nella concisa ed efficace postfazione, Chuck Rosenthal "ha scritto molti libri strani. Il più strano di tutti è forse Jack Kerouac's Avatar Angel". Meriterebbe il premio Pulitzer solo per il titolo, poi la storia in sé è un delirio psichedelico (Kerouac torna e vede Reagan in televisione pensando sia un film, invece è la realtà ed è il presidente degli Stati Uniti d'America) anche se con Chuck Rosenthal bisogna stare molto attenti a disquisire di visioni e realtà. Nel corso frenetico di A Ovest dell'Eden, lui e/o il suo alter ego Shark Rosenthal ammette di essere arrivato "a scoprire che c'erano molte illusioni a cui gli americani credevano, dalle assicurazioni sulla vita alle polizze varie, al credere che la cosa che hai comprato e pagato ti sarà consegnata a domicilio. Fino all'illusione di vivere in una casa o in un cosmo funzionante". E il palcoscenico in cui si svolge una trama-non-trama che è tutto linguaggio, è Los Angeles, il non luogo per eccellenza. Da scoprire, assolutamente.

   

David Byrne
Come funziona la musica

[Bompiani]
pp. 345

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Come funziona la musica è destinato a cambiare in modo sostanziale quel luogo comune, ispirato da Frank Zappa, per cui scrivere di musica è bizzarro, inutile o addirittura dannoso. Prima di tutto perché David Byrne affronta l'argomento con il piglio del narratore e sapendo che "ci sono due conversazioni che si svolgono contemporaneamente: la storia e il modo in cui la storia viene raccontata", riesce a restare in equilibrio, con un tono appassionato e nello stesso tempo molto efficace e articolato. Dipende anche dalla scelta di affidarsi a un linguaggio chiarissimo nella sua ricchezza, una scelta dovuta al fatto che "la semplicità è una sorta di trasparenza in cui leggere sfumature possono avere un effetto enorme. Quando tutto è visibile e pare banale, i dettagli assumono un significato più grande". Per capire Come funziona la musica David Byrne parte dal definire quello che chiama, più di una volta, "il contesto", ovvero le condizioni che determinano la percezione della musica. Essendo "roba forte", come dice in un altro, eloquente passaggio, vale davvero la pena di confrontarsi con un'analisi molto scorrevole nella forma ed estremamente densa nella sostanza dei contenuti, che vanno dall'essenza filosofica e artistica della musica ad argomenti più prosaici ma non meno complessi, come l'evoluzione tecnologica dei prodotti discografici e le condizioni (disastrate) del loro mercato. Davvero un gran bel libro, compreso un sentito e dettagliato ricordo degli inizi dei Talking Heads al CBGB's, dove tutto è cominciato.

Luca Bragalini
Storie poco standard

[EDT]
pp. 202

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E' la storia di un lungo secolo di musica americana quella che attraversa "le avventure di dodici grandi canzoni tra Broadway e jazz". Si va dalla classicissima Over The Rainbow, già resa immortale da Judy Garland e poi diventata una "trascrizione standard" a partire da Art Tatum e si arriva all'immancabile bonus track (numero tredici, of course) che è Nothing To Lose dal songbook di Henry Mancini. Pur essendo un noto e perseverante musicologo, quindi portato a vivisezionare la musica, Luca Bragalini riesce nel "poco standard" tentativo di inseguire la materia inafferrabile delle canzoni attraverso il tempo, le interpretazioni, le variazioni d'umore o di stile. Come una piccola talpa, cieca e laboriosa, se ne va a testa bassa scavando nei meandri, spulciando tra spartiti e appunti di lavorazione, cercando di comprendere le modulazioni del linguaggio, quello delle parole e quello della musica, che una canzone può accogliere e/o subire nel passaggio da Nina Simone a Janis Joplin fino a Chet Baker, come è nel caso (esemplare) della storia di Little Girl Blue. Visto che nello stesso modo si parla di Georgia On My Mind piuttosto che di My Favorite Things, di Autumn Leaves o di Someday My Prince Will Come (Miles Davis è uno dei fantasmi più assidui in queste pagine), Storie poco standard ha il pregio assoluto di riportare al centro dell'attenzione quella che è l'essenza della musica americana, la canzone. "Popular song are songs that become popular" dice Irving Berlin nell'introduzione e per capirlo non si può tradurre, bisogna arrivare in fondo a queste Storie poco standard e molto utili.

   

Davide Sapienza, Franco Michieli
Scrivere la natura

[Zanichelli]
pp. 160

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Ci va una vita, anzi due, a scrivere un libro così, che dietro l'apparenza del manuale per una particolare frangia di scrittura creativa cela una raffinatissima antologia letteraria che va da Jack London a Franz Kafka e una prospettiva singolare, così descritta nell'introduzione: "La strada per raggiungere una visione personalizzata del pianeta vivente passa per la riflessione individuale, sviluppata stando concretamente nel paesaggio o accanto a creature diverse dall'uomo. Gli elementi della natura e gli esseri viventi sono i protagonisti: mondi popolati da acqua, neve, alberi, rocce, animali, in una rete complessa di relazioni". Davide Sapienza e Franco Michieli scavano a mani nude proprio in quell'humus e al destinatario, a chi si accinge a "progettare un testo ed esercitarsi nella scrittura" non impongono modelli, strutture, schemi, piuttosto lo accompagnano con una vasta serie di indizi, sempre puntuali nel tracciare il sentiero perché "è evidente che l'urgenza di raccontare nasce da qualcosa di intimo e di vissuto. Ciò che non ci autenticamente tocca difficilmente può stimolare in noi una sorta di missione. Nel nostro caso, quindi, la narrazione nasce da una condivisione con la condizione della natura o di particolari creature. Non è indispensabile aver sperimentato la wilderness: possiamo essere colpiti dalla natura anche in piena città, coinvolti da un animale, da una pianta, dal cielo, pur circondati da un contesto artificiale". Da portare in viaggio, sempre.

Marco Drago
Una prigione grande come una nazione

[Barbera]
pp. 154

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Con una vocazione più sparagnina che low cost, Marco Drago sceglie di non passare un'altra estate a ubriacarsi al Maltese e si inventa un suo personale master in linga teutonica a Magdeburgo. Per collegare il punto di partenza e quello che poi racconta Una prigione grande come una nazione servono, come minimo un paio di nozioni geopolitiche sui luoghi evocati già nelle primissime pagine. Il Maltese è un posto fantastico (nel senso più letterale del termine) sulle colline dell'Astigiano che condensava sotto lo stesso tetto la redazione dell'omonimo giornale letterario, una delle migliori rock'n'roll location che siano mai esistite in Italia, una casa comune e chissà che altro. E siamo solo all'inizio. Magdeburgo, è utile (parecchio) ricordarlo, nell'estate del 1988, stava dall'altra parte. C'era l'Unione Sovietica, c'era la Stasi e con Marco Drago c'erano studenti (studenti?) in arrivo da tutta l'Europa e da mezzo mondo che, neanche a dirlo, sorvolavano sulla guerra fredda non meno che sulla natura della loro permanenza. "Il campus faceva venire voglia di strafarsi ascoltando i R.E.M. e Zappa ed è quello che si faceva con regolarità" ammette il candido Marco Drago, solo che il rock'n'roll non era proprio popolare nella porzione di Germania guidata da Erich Honecker. La vacanza si trasforma in un'avventura non prima di amarezza e di paura: nell'aria ci sono due mondi che stanno venendo giù e uno è l'allegra gioventù del protagonista che con Una prigione grande come una nazione trova il suo "grande freddo" e il suo romanzo più personale.


 


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