Un titolo che possiede un inconfondibile sapore di auto ironia, ma nello stesso
tempo sa di spietato desiderio, come se i Dap-Kings conoscessero ormai
a memoria il loro raggio d'azione, quelli che possono e devono essere i loro obiettivi
al fianco di Sharon Jones, la voce più pepata che il soul revival abbia
conosciuto negli ultimi dieci anni. Give The People What They Want
li ricolloca in posizione d'attacco, seppure non di avanguardia, per uno stile
che resta in buona parte una personale rilettura dell'età dell'oro della black
music, una vivace interpretazione di stili e suggestioni che intrecciano a stretto
giro Motown e Stax, la macchina pop di Detroit e il deep soul di Otis Redding.
Il vero dato positivo è rivedere Sharon Jones al centro dell'azione: tornata
all'attività concertistica lo scorso novembre, dopo diversi mesi di oblio, costretta
al ritiro temporaneo e al conseguente rinvio dell'album in seguito ad una forma
aggressiva di tumore al pancreas, la regina dei Dap Kings mostra in tutta la sua
fierezza una piccola battaglia vinta e una forza d'animo che riflette per intero
nelle sue interpretazioni vocali. Sulla copertina del "Village Voice"
dello scorso novembre appare senza filtri e si confessa: gli effetti della chiemioterapia
sono evidenti sul volto e lei ci scherza su, come quando ricorda di avere rifiutato
una parrucca perché la faceva sembrare Dionne Warwick. D'altronde è una signora
che dalla vita ha imparato la lezione più dura, sfiorando il successo e le grandi
collaborazioni di prestigio superati i quarant'anni: Give The People What They
Want, quinto disco di studio con gli undici elementi dei Dap-Kings è un po' la
capitalizzazione di queste conquiste, forse il disco più smaliziato e adulto della
produzione di casa, a cominciare dai cori sixties e da certa grandeur soul che
invade Retreat! o Now
I See (Tina Turner la nuova musa?).
Ciò detto, se il funk grasso
e travolgente degli esordi (rivolgersi nel caso a Dap Dippin' e Naturally) si
è senz'altro ridimensionato nel corso del tempo, la band suona oggi come una sofisticata
macchina di musica black dai colori "settanteschi", raffinata eppure
ardente di passione, senza eccessivi trucchi del mestiere. Ci sono fragranze pop
nemmeno tanto nascoste tra le righe di Stranger To My
Happiness e di una soave Making Up and Breaking
Up, tanto quanto aromi classici in We Get Along e Get Up
and Get Out e impulsi swamp sudisti in Long Time,
Wrong Time, tutte costruite su dettagli preziosi ed essenziali per
il genere: il call&response tra voce e fiati, le sfumature delle sottili ritmiche
chitarristiche, il pingue piatto dei bassi, il tappeto dei cori, nell'insieme
segnali che qualsiasi appassionato di "sweet soul music" può riconoscere all'istante.
È evidente che questo tolga l'effetto sopresa (People
Don't Get What They Deserve però ha la stoffa di un singolare episodio,
che potrebbe funzionare in una colonna sonora), e che ci siano richiami a volte
fin troppo chiari alla stessa storia della band, ancora una volta riunita come
una famiglia negli studi House of Soul di Riverside, California. È il prezzo da
pagare per evocare i classici, ma non averne purtroppo l'età e il pedigree per
incarnarne l'essenza.