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dirty blues di
Matteo Fratti (04/10/2018)
Il debutto di Connely Farr, questo ragazzotto "da Vancouver", tradisce
in realtà delle radici ben più profonde, non soltanto musicali. Perché se altri
motivi l'hanno portato così lontano, il sound di questo disco parla da solo e
ne rivela un'identità che non si può facilmente nascondere quando nasci a Bolton,
Mississippi, così come quasi in qualsiasi altro luogo di quello stato che già
Alan Lomax non esitò a definire come "la terra dove è cominciato tutto" (The
Land Where The Blues Began). Poco importa allora dove stai nel mondo, sembra
che in bene o in male, l'aria che si respira laggiù poi esca in qualche modo da
quanto si mette in pratica imbracciando uno strumento musicale.
Ci potrà
essere allora chi fugge da quella che potrebbe sembrare una maledizione, o chi
vi si adatta riconoscendo oltremodo che tutto sommato, quelle sono le nostre radici
e un linguaggio unico che contraddistingue in modo inequivocabile una parte di
storia. Tanta forza di qualcosa che non è solo musica, contro quanto furono prevaricazione
e negazione di alcuni diritti a cui occorre sempre contrapporsi, per affermare
la propria identità. Non lo dimentica Robert Connely Farr, allorché nel solco
di una tradizione che forse gli americani hanno imparato più dagli inglesi, ritorna
a casa e non si lascia sfuggire il passaggio di testimone di quanto altrimenti
rischierebbe di sparire, avvicinandosi con grande rispetto alla lezione di Jimmy
"Duck" Holmes poco lontano dal suo luogo di nascita, come altri figli non solo
bianchi fecero al cospetto di altrettanti padri dell'idioma afroamericano. Abbandona
allora le istanze più rock che avrebbero potuto essere nell'orizzonte meridionale
di Vancouver coi suoi Mississippi Live & The Dirty Dirty, per imparare il Bentonia-style
dalla testimonianza diretta di un bluesman come Holmes, intermediario con quel
regionalismo stilistico che fu di personaggi emblematici come il grande Skip James.
Coi Rebeltone Boys, stavolta, è Dirty South Blues che diventa
per il nostro robusto front-man un momento di svolta a suo nome, caricandosi di
tutta la responsabilità di un album dai connotati molto più "deltatici", ma dall'appeal
comunque molto sudista, e rock. Niente che si lasci andare all'apparenza però,
perché in questo lavoro possiamo parlare autenticamente di blues: significativa
l'Ode To The Lonesome in apertura, sospesa
come una notte sulla highway 61; tesa come la corsa di un levriero l'immancabile
omaggio al vecchio Blue Front Café di Bentonia, juke joint sulla 49; e Magnolia,
che pure evoca il nickname dello stato del Mississippi, ha immanente l'inquietudine
di un vecchio blues, che rimane anche nella scurissima e tribale Lady
Heroin, o in Cypress Tree Blues. Ma la chitarristica title-track
o le "stonesiane" chiusure Yes Ma'am o Hey
Mr Devil non riescono a distogliere un imprinting vocale più legato al southern
degli Skynyrd, che apre il progetto in questione a un pubblico meno purista, contaminandone
forse il risultato finale.
Certo è che delle chicche rimangono cose come
Jive, regalo di Jimmy "Duck" Holmes e imperdibile
aggancio tra "fathers & sons" nell'ipotetica iconografia di un blues del nuovo
millennio e di un'immarcescibile tradizionalità contemporanea.