inserito 30/06/2011

Bo Diddley
Bo Diddley's Beach Party
[Hip-O Select / Geffen 2011]



Nella confusione creativa dei primi anni '60, poteva capitare persino che il nero del Mississippi Bo Diddley - l'antesignano della transizione elettrica dal blues al rock'n'roll - si ritrovasse a tenere, il 5 luglio del 1963, un concerto dalle parti di Myrtle Beach, South Carolina, destinazione tipica della working class impegnata a lavorare i legnami della contea di Horry e località marittima popolata da uno schiacciante 82% di bianchi di razza caucasica. Trascinante ed economico, lo spettacolo di Bo prevedeva la presenza sul palco del fidato Jerome Green (suonatore di tuba convertito alle maracas per amore del r'n'r e, soprattutto, per pagare le bollette) e di Norma-Jean "The Duchess" Wofford (chitarrista ventenne di Pittsburgh appena istruita da Bo, che s'inventò fosse sua sorella, circa i rudimenti dello strumento: doveva del resto rimpiazzare, il più in fretta possibile, "Lady Bo", ovvero Peggy Jones, neodimissionaria sei corde di un Diddley agli esordi); accadde però che il primo, ipnotizzato dai ritmi tarantolati del capo, si tuffasse in mezzo al pubblico, dando vita a un ballo selvaggio in compagnia delle spettatrici bianche. La scena, inaccettabile per i poliziotti di un'America ancora dominata dai principî repressivi del segregazionismo, scatenò gli insulti razzisti e antisemiti delle forze dell'ordine, nonché la sospensione immediata dello show e la minaccia di un trasferimento collettivo in carcere. A placare gli animi ci pensò Marshall Chess, figlio e nipote dei Leonard e Phil fondatori dell'eponima etichetta discografica (oltre che instancabile promotore di Bo Diddley), che ebbe anche l'idea, colpito dall'energia che continuava a fluttuare nell'aria, di registrare l'esibizione in programma per la serata successiva.

Bo Diddley's Beach Party uscì nel gennaio del 1964 per la Checker, sussidiaria "rockista" della Chess, e da allora è stato considerato il primo, grande album dal vivo della storia del rock. E sebbene l'epocale Live At The Apollo di James Brown lo preceda di un anno e l'altrettanto magnifico Live At The Star Club, Hamburg di Jerry Lee Lewis addirittura di due, bisogna anche dire che il live newyorchese di Brown, pur fortunatissimo sotto il profilo commerciale, restò per lungo tempo appannaggio quasi esclusivo di un'audience afroamericana, mentre l'incendiaria esibizione olandese del Killer (accompagnato da dei Nashville Teens mai più così grintosi) rimase inedita, in patria, sino al 1990 di una benemerita ristampa targata Rhino. Diciamo allora che Bo Diddley's Beach Party, nonostante le radici blues del titolare e nonostante una pubblicazione programmata in piena esplosione del movimento surf, è il primo live consacrato anima e corpo al rock'n'roll: non una curiosità vintage, insomma, non una premessa del passaggio dal blues di John Lee Hooker al fragore degli Yardbirds, né un'introduzione a un mutamento sonoro da svilupparsi in modo più compiuto negli anni successivi, bensì l'entelechia stessa del rock'n'roll, la piena attuazione di un cambio di pelle destinato a generare la sporcizia travolgente di Kinks e Rolling Stones, una mezz'ora di fulminante sconquasso elettrico dove il rito del concerto - l'indistinto collettivo - esprime infine, prima di diventare una delle parole chiave del glossario rock, la modernità. Può darsi non sia facilissimo coglierlo per chi si accosta al disco per la prima volta, trovandosi alle prese con una riconfigurazione stereo comunque assai cavernosa (ancorché molto lontana dall'esaltante, sanguinosa raucedine mono dell'ellepì originale), ma tra i solchi di questo album, nel sound scassato da bootleg di bassa qualità e nelle pennate febbricitanti di Diddley, nel convulso ricorrere a echi, distorsioni e sortilegi ritmici assortiti, nelle ondate di rumore intente a surrogare teppismo, smancerie ed esaltazione individuale, nel famigerato "beat" costruito sulla ripetizione di un unico accordo triturato in un fuoco d'artificio tra rumba e fervori percussivi (per lo più importati dalle danze popolari del nordafrica), si trovano già il garage pestone dei Sonics e il punk'n'roll bruciante dei Clash, le ascensioni heavy dei Led Zeppelin e la sordida necrosi metropolitana degli Stooges, il glam insolente delle New York Dolls e il cataclisma delle percussioni negli U2 di Desire.

L'elemento principale di Bo Diddley's Beach Party è l'impeto, acciuffato in ogni canzone anche a scapito della chiarezza della performance: in almeno due occasioni, nella ripresa tutta chitarre e percussioni di On Top Of Old Smoky (traditional folk reso popolare dagli Weavers e qui ribattezzato Old Smokey) e nella strampalata rilettura di Mr Custer (novelty-song di Larry Verne targata 1960 sulla preparazione dell'omonimo Generale allo scontro con i nativi americani), si avverte l'impressione che il concerto stia deragliando nell'improvvisazione pura e semplice, salvo poi rientrare nei binari prima col rhytm'n'blues infernale della strepitosa Bo Diddley's Dog (in un tripudio di imitazioni del celebre verso canino), poi con la quiete apparente e colorata di country della spiazzante Bo's Waltz. Nello strepitoso rock'n'soul di una I'm All Right in pratica doppiata dal pubblico in tempo reale, invece, non è difficile scorgere i primi segni di un'estasi rockinrollista che Bruce Springsteen avrebbe elevato allo stato dell'arte rispolverando, e allungando a dismisura, le hits di Eddie Floyd e Gary US Bonds, così come nel mid-tempo di What's Buggin' You (versione primigenia della più nota Crackin' Up) è naturale leggere il tentativo di comporre una di quelle ballate stradaiole che diverranno il marchio di fabbrica degli Stones più maturi. Ma tutto Bo Diddley's Beach Party raffigura un arsenale di intuizioni sulle quali capitalizzeranno in tanti: a parte la scatenata rivisitazione della Memphis di Chuck Berry (una specie di omaggio all'artista che, in compagnia dello stesso Diddley, di Little Richard, di Fats Domino e di Ike Turner, ha in pratica inventato il rock'n'roll), nel ritmo frenetico delle varie Bo Diddley's A Gunslinger, Hey Bo Diddley e Road Runner si trovano la new-wave disarticolata dei Modern Lovers e il senso dell'umorismo degli Hoodoo Gurus, la velocità abrasiva dei Ramones e le rifrazioni allucinate dei Jesus And Mary Chain, il power-pop dei Breakaways di Peter Case e le dilatazioni della sei corde di Johnny Marr negli Smiths. E non si tratta, com'è ovvio, soltanto di una sorta di Trivial Pursuit dei rimandi e delle corrispondenze: sarà anche stato il sismografo sul quale apparvero i segnali di un terremoto - l'avvento del r'n'r - dalle conseguenze imprevedibili, e tuttavia Bo Diddley's Beach Party resta prima di tutto un grande disco. Generoso, appassionato e coinvolgente come solo i grandi live, tutti (nessuno escluso) mettendo a frutto la lezione di questo album, sapranno essere.
(Gianfranco Callieri)

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