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30/06/2011 | |||
Bo
Diddley Bo
Diddley's Beach Party uscì nel gennaio del 1964 per la Checker, sussidiaria
"rockista" della Chess, e da allora è stato considerato il primo, grande album
dal vivo della storia del rock. E sebbene l'epocale Live At The Apollo di James
Brown lo preceda di un anno e l'altrettanto magnifico Live At The Star Club, Hamburg
di Jerry Lee Lewis addirittura di due, bisogna anche dire che il live newyorchese
di Brown, pur fortunatissimo sotto il profilo commerciale, restò per lungo tempo
appannaggio quasi esclusivo di un'audience afroamericana, mentre l'incendiaria
esibizione olandese del Killer (accompagnato da dei Nashville Teens mai più così
grintosi) rimase inedita, in patria, sino al 1990 di una benemerita ristampa targata
Rhino. Diciamo allora che Bo Diddley's Beach Party, nonostante le radici blues
del titolare e nonostante una pubblicazione programmata in piena esplosione del
movimento surf, è il primo live consacrato anima e corpo al rock'n'roll: non una
curiosità vintage, insomma, non una premessa del passaggio dal blues di John Lee
Hooker al fragore degli Yardbirds, né un'introduzione a un mutamento sonoro da
svilupparsi in modo più compiuto negli anni successivi, bensì l'entelechia stessa
del rock'n'roll, la piena attuazione di un cambio di pelle destinato a generare
la sporcizia travolgente di Kinks e Rolling Stones, una mezz'ora di fulminante
sconquasso elettrico dove il rito del concerto - l'indistinto collettivo - esprime
infine, prima di diventare una delle parole chiave del glossario rock, la modernità.
Può darsi non sia facilissimo coglierlo per chi si accosta al disco per la prima
volta, trovandosi alle prese con una riconfigurazione stereo comunque assai cavernosa
(ancorché molto lontana dall'esaltante, sanguinosa raucedine mono dell'ellepì
originale), ma tra i solchi di questo album, nel sound scassato da bootleg di
bassa qualità e nelle pennate febbricitanti di Diddley, nel convulso ricorrere
a echi, distorsioni e sortilegi ritmici assortiti, nelle ondate di rumore intente
a surrogare teppismo, smancerie ed esaltazione individuale, nel famigerato "beat"
costruito sulla ripetizione di un unico accordo triturato in un fuoco d'artificio
tra rumba e fervori percussivi (per lo più importati dalle danze popolari del
nordafrica), si trovano già il garage pestone dei Sonics e il punk'n'roll bruciante
dei Clash, le ascensioni heavy dei Led Zeppelin e la sordida necrosi metropolitana
degli Stooges, il glam insolente delle New York Dolls e il cataclisma delle percussioni
negli U2 di Desire. L'elemento
principale di Bo Diddley's Beach Party è l'impeto, acciuffato in
ogni canzone anche a scapito della chiarezza della performance: in almeno due
occasioni, nella ripresa tutta chitarre e percussioni di On
Top Of Old Smoky (traditional folk reso popolare dagli Weavers e qui
ribattezzato Old Smokey) e nella strampalata rilettura di Mr
Custer (novelty-song di Larry Verne targata 1960 sulla preparazione
dell'omonimo Generale allo scontro con i nativi americani), si avverte l'impressione
che il concerto stia deragliando nell'improvvisazione pura e semplice, salvo poi
rientrare nei binari prima col rhytm'n'blues infernale della strepitosa Bo
Diddley's Dog (in un tripudio di imitazioni del celebre verso canino),
poi con la quiete apparente e colorata di country della spiazzante Bo's
Waltz. Nello strepitoso rock'n'soul di una I'm
All Right in pratica doppiata dal pubblico in tempo reale, invece,
non è difficile scorgere i primi segni di un'estasi rockinrollista che Bruce Springsteen
avrebbe elevato allo stato dell'arte rispolverando, e allungando a dismisura,
le hits di Eddie Floyd e Gary US Bonds, così come nel mid-tempo di What's
Buggin' You (versione primigenia della più nota Crackin' Up) è naturale
leggere il tentativo di comporre una di quelle ballate stradaiole che diverranno
il marchio di fabbrica degli Stones più maturi. Ma tutto Bo Diddley's Beach Party
raffigura un arsenale di intuizioni sulle quali capitalizzeranno in tanti: a parte
la scatenata rivisitazione della Memphis di
Chuck Berry (una specie di omaggio all'artista che, in compagnia dello stesso
Diddley, di Little Richard, di Fats Domino e di Ike Turner, ha in pratica inventato
il rock'n'roll), nel ritmo frenetico delle varie Bo Diddley's
A Gunslinger, Hey Bo Diddley e
Road Runner si trovano la new-wave disarticolata
dei Modern Lovers e il senso dell'umorismo degli Hoodoo Gurus, la velocità abrasiva
dei Ramones e le rifrazioni allucinate dei Jesus And Mary Chain, il power-pop
dei Breakaways di Peter Case e le dilatazioni della sei corde di Johnny Marr negli
Smiths. E non si tratta, com'è ovvio, soltanto di una sorta di Trivial Pursuit
dei rimandi e delle corrispondenze: sarà anche stato il sismografo sul quale apparvero
i segnali di un terremoto - l'avvento del r'n'r - dalle conseguenze imprevedibili,
e tuttavia Bo Diddley's Beach Party resta prima di tutto un grande disco. Generoso,
appassionato e coinvolgente come solo i grandi live, tutti (nessuno escluso) mettendo
a frutto la lezione di questo album, sapranno essere.
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