Charles
Bradley No
Time For Dreaming
[Dunham Records 2011]
I fanatici della "googlata" si faranno un paio di risate quando cercheranno
chi diavolo sia codesto Charles Bradley, uno che a guardarlo sulla copertina
di questo No Time For Dreaming sembrerebbe avere storia ed esperienza
da vendere. Invece la diabolica Wikipedia per questo nome offre alla storia nell'ordine:
un cestista in pensione, un politico canadese, un giudice, un uomo d'affari, un
professore di geologia, perfino un predicatore, ma nessun soul-singer di vecchia
data. Per una volta anche i selvaggi navigatori dell'informazione facile e veloce
saranno quindi costretti a leggersi qualche noiosa recensione come questa, giusto
perché scoprano che questo sessantaduenne è nientemeno che un esordiente, o, se
preferite, un dopolavorista del soul che ha finalmente trovato l'occasione giusta
sulle soglie della pensione.
Le curiosità in merito a questo disco finiscono
qui, perché poi l'operazione produttiva messa in piedi dalla Dunham Records è
tutt'altro che robetta da parvenu del soul, visto che qui produce Thomas "Tommy
TNT" Brenneck, chitarrista dei Dap-Kings (che conosciamo come fidi scudieri
di Sharon Jones), ma soprattutto leader della Menahan Street Band, già titolari
di un interessante disco del 2008 (Make the Road By Walking), e qui presenti al
gran completo come home-band. Ma soprattutto ancora meno sorprendente è il contenuto,
un lotto di brani autografi che strizzano l'occhio senza troppi misteri a James
Brown, e finiscono però ad invadere più il campo di altri giganti del genere.
In un certo senso No Time For Dreaming potrebbe essere il punto di non ritorno
del nuovo soul-revival di questi anni, l'estremizzazione dell'elemento nostalgico
di una scena di paladini della old-time black music che combattono lo strapotere
del rap e dell'hip hop a colpi di sezioni fiati e sonorità vintage. Un'invasione
più volte benedetta anche da noi, che ci ha fatto scoprire validi soul-singer
(Roy Young, Sterling Harrison,…), o riesumato vecchie glorie dimenticate (Bettye
Lavette, Mavis Staples, Solomon Burke, la lista è lunga), che hanno riportato
in auge un genere da troppo tempo schiavo dell'obbligo di stare al passo con i
tempi.
Bradley si aggiunge al gruppo ed isterizza ancor più il concetto
con un disco che sembra sputato fuori da uno studio della Stax degli anni 60,
e che non si fa mancare un tributo a nessun padre spirituale (Marvin Gaye vive
nel ritmo di Telephone Song, Curtis Mayfield
transita nelle note di Golden Rule, James
Brown un po' ovunque). Forse si potrebbe criticare un certo manierismo generale,
o rimarcare che, sparate subito le cartucce migliori, il disco scema un po' nella
ripetizione della formula "ballata sofferta alla It's A Man's, Man's, Man's World".
Oppure magari si potrebbe notare che ci sono giovani esponenti che sullo stesso
campo osano magari qualcosa di più, senza per forza annacquare il loro sound (Aloe
Blacc o Black Joe Lewis ad esempio). Ma siamo certi che per Bradley queste sarebbero
solo speculazioni da critici che nulla hanno a che vedere con il sudore e la passione
di questo album. (Nicola
Gervasini)