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white electric blues di
Matteo Fratti (16/10/2018)
La storia alle spalle di Elvin Bishop può farcelo annoverare tra quelli
che potrebbero sedere a tavola coi grandi, condividere un pasto frugale e poi
suonare tutta la sera, che il vero convivio è stato il palcoscenico calcato insieme
con Al Kooper e Mike Bloomfield nelle loro Live Adventures in San Francisco, o
con gli Allman, quelle sere At Fillmore East della Grande Mela. Certo è che con
amici come Paul Butterfield con cui fondò la nota Blues band in Chicago, respirandone
l'aria della Città Ventosa in tempi non sospetti, vediamo che il nostro sembra
essere sempre stato al posto giusto al momento giusto, forse proprio per questo
meno riconosciuto rispetto a come dovrebbe essere davvero. Ma tutta la libertà
di rigirarsi il blues nelle mani a suo piacimento gli viene da quegli anni là,
dove la materia era ancora fango del Mississippi a cui dare forma, senza le reticenze
di un irrisolto "maneggiare con cura" al quale il pregiudizio culturale dominante
negli U.S.A. ci avrebbe da sempre abituato, nell'incontro con la comunità afroamericana.
Bishop è stato allora uno tra i pochi precursori non inglesi, che avrebbero
battuto il ferro finché caldo, e ancora oggi pare non aver mai smesso di tenere
la materia prima a temperatura, fedele alla linea a licenziare ancora un volta
un disco coi fiocchi, magari non tutto di prima mano, ma certamente ben fatto
e godibile all'ascolto, quanto ad un autentico blues elettrificato e poi più noto
come "urbano". Sappiamo da dove viene perciò questo sound, come un prodotto acquistato
in cascina anziché al supermercato e per questo genuino tanto nel riproporci qualcosa
d'altri, come nelle novità o nei rimaneggiamenti comunque autografi, pur presenti
e mai superflui per uno con una lunga carriera alle spalle, ormai settantaseienne
californiano. A fargli compagnia, Bob Welsh per seconda chitarra, piano e organo,
e Willy Jordan, voce e cajon, con lui a formare i Big Fun Trio, ulteriore
prova di un percorso solista intrapreso già cinquant'anni fa, nel lontano '68
dell'Elvin Bishop Group.
E.B. è però all'Alligator ormai da qualche album,
e dopo la traccia d'apertura che è poi la stessa title-track, riproporrà non certo
in filologico ordine cronologico, un paio di sue vecchie songs: Right
Now Is The Hour, già in Hog Heaven, 1978, e Stomp,
da Rock My Soul del '72. Un terzetto che, solo, ci da l'idea di che pasta è fatto
il trio, dove Something Smells.. spiana la strada, aprendoci le orecchie
con un blues aggressivo e deciso, la seconda brilla festosamente e l'ultima di
cui sopra, strumentale, con l'altra del lotto (Bob's Boogie) dice cosa
sanno fare i ragazzi. Così ci da dentro pure Welsh all'organo, in una ballad cui
si accompagna anche il falsetto di Jordan, I Can't Stand The Rain, neanche
fosse rubata a John Hyatt (...ma non è sua) tra le migliori del lavoro. Ma non
solo blues è per talune cover come la rilassata Another Mule e My
Soul, dal fare New Orleans e zydeco l'ultima, partecipata dal fisarmonicista
André Thierry. I pezzi come Lookin' Good tuttavia sono vera essenza dei
Big Fun, che se That's The Way Willy Likes It prima non suggerisce nulla
di nuovo, la penultima è invece quel che ci si aspetta da loro, a divertirsi ancora
come un tempo col solito, buon vecchio blues.