Israel
Nash Gripka Barn Doors and Concrete Floors
[Israel
Nash Gripka
2011]
Lo
scarto è evidente, racchiuso in una cover che saluta definitivamente i grattacieli
della metropoli, gli stessi che facevano da sfondo al suo esordio, per immegere
oggi Israel Nash Gripka in una proverbiale wilderness americana,
nel placido mistero delle Catskills Mountain, parecchie miglia al di fuori dall'energia
d'asfalto di New York. Barn Doors and Concrete Floors, sia chiaro,
non è altro che la prosecuzione delle promesse racchiuse in New
York Town, crescita auspicata di una voce che adesso possiamo finalmente
considerare una certezza del rock'n'roll d'autore, là dove ballate agresti e profumi
folk si intrecciano alle pulsioni di un solidissimo rocker urbano. È nata una
stella? Noi cercheremo di essere più concreti e parsimoniosi nello sprecare parole
al vento, ma è pur vero che Barn Doors and Concrete Floors inaugura un percorso,
quanto duraturo lo verificheremo, entusiasmante per chi ancora cerca voci dal
grande nulla americano.
Gripka, originario del Midwest e attirato come
un satellite dalla forza gravitazionale elettrica della grande città, ha avuto
l'intuizione di tornare idealmente a casa, mettendo in piedi la sua personale
"Big Pink": un vecchio granaio nella zona delle Castkills, un produttore
e un fonico (rispettivamente Steve Shelley dei Sonic Youth e Ted Young)
aperti alle sue richieste e abbastanza folli da assecondarlo, quindi una piccola
cerchia di musicisti che sapessero risaltare la tensione emotiva che naturalmente
sgorga dalle sue canzoni. Non cadiamo distanti insomma dal sound rotondo di New
York Town, ma nell'insieme tutto si presenta semplicemente più uniforme e concentrato
sull'obiettivo finale: è ancora un disco infarcito di tempi medi e di ballate
roots rock con l'anima ferita, dove il grido di Fool's
Gold e la carica stradaiola di Lousiana,
la malinconia pastorale di Drown e Sunset
Regret, gli stridori desertici di Goodby Ghost
aggiornano la lezione del mentore artistico, Ryan Adams, senza apparire più solamente
ossequiose imitazioni. Che ci fosse del talento genuino, una qualche forza espressiva
anche in quel canto approssimativo, era chiaro fin dal debutto, ma strada facendo
Israel Nash Gripka ha spezzato non poco le catene che lo legavano alle direttive
di Gold e Cold Roses, dischi che prima o poi dovremo imparare a riconoscere come
classici moderni del cantautorato USA, per allestire un'opera in crescendo.
Ha
trovato la sua voce insomma, e il tono con cui imprime la rotta in Four
Winds o pare incanalare l'intera energia della band in Baltimore
non lascia spazio ai dubbi. La qualità che colpisce in Barn Doors and Concrete
Floors è proprio la progressione del lavoro di squadra, come se le capacità dei
singoli, a stretto contatto in questa catapecchia riadattata a studio di registrazione,
abbiano consolidato l'intesa fra tutti i partecipanti: Jason Crosby (hammond e
piano), Joey McClellan (chitarre) e Aaron McClelland (basso) dei The Fieros, Rich
Hinman (steel), Eric Swanson e Brendon Anthony (fiddle, mandolino e banjo), senza
particolari curriculum da sfoggiare, hanno colto il senso dei versi di Gripka
e egli stesso sembra averne giovato. Avrà ancora un senso precario in qualche
interpretazione, ma fa parte di quel grado di asprezza che appartiene al personaggio:
di certo Barn Doors and Concrete Floors è un album che cresce sulla
distanza, che non spreca tutto e subito ma anzi trova i tempi giusti per maturare.
In Black and Blue ad esempio e nell'eco di
una chitarra tutta riverberi, o nella desolazione acustica di Bellwether
Ballad, fino a montare come una piena nel trascinante finale di Antebellum,
sentimento ed elettricità che si abbracciano di pari passo, fiammante colpo di
coda che chiude un grande album. (Fabio Cerbone)