Nel mondo di Will Oldham due più due non fa mai quattro, le emozioni si
esprimono solo nell'oscurità, e si traducono sempre in un folk strascicato
e caracollante. O perlomeno questa era diventata la banalità di rito da
dire nelle recensioni a lui dedicate. Con Beware cambia
la sua musica, e probabilmente anche il modo comunemente usato per descriverla.
Nel corso delle numerose produzioni di tutte le sue incarnazioni artistiche
(Will Odlham, Palace Brothers, Palace Music e Bonnie "Prince" Billy quelle
principalmente usate), Oldham ha creato un club che ammette pochi selezionati
adepti, ma l'anno scorso sono arrivati l'indefinibile Lie
Down In The Light e quello strano e strabiliante live Is
This The Sea?, entrambi così pesantemente immersi nella tradizione
rurale americana da cominciare a far storcere il naso ai soci più esclusivi,
poco avvezzi ad ammettere linguaggi così convenzionali e codificati nelle
vene del loro guru.
Beware esce come al solito in fretta, con quella cadenza ormai semestrale
a cui ci ha abituati (se il prossimo novembre non dovesse pubblicare nulla,
ci sarà seriamente da preoccuparsi), e toglie ogni dubbio sulla natura
della svolta intravista lo scorso anno. Lo scandalo è che per la prima
volta Oldham sembra voler omaggiare, seguire, citare altri mondi e altri
stili, fin da quella copertina che è un'evidente copia di Tonight's The
Night di Neil Young, ma potrebbe anche essere il layout su cui basare
una serie di suoi ipotetici American Recordings. Ma la buona novella è
che questo disco non è un titolo di passaggio, ma rappresenta una nuova
milestone del suo straordinario percorso artistico, dopo che I See A Darkness
aveva certificato la raggiunta maturità e The Letting Go aveva chiuso
il corso con il classico sommario di una carriera. Il suono di Beware
è nato negli studi di Chicago con una folta schiera di musicisti di genere,
tra i quali il chitarrista Greg Leisz e l'ex Mekons Jon Langford,
ed è un sound pieno, molto simile a quello che si ritrovava in certe produzioni
di Nashville degli anni settanta, con largo uso di epici cori femminili
(Beware Your Only Friend), abbondante
uso di pedal-steel guitar, e ritmi orgogliosamente classic-country (You
Can't Hurt Me Now e I Don't Belong
To Anyone).
Ad un certo punto fa capolino persino un bellissimo sax da rotonda sul
mare in quella gemma che è My Life's Work,
brano che tra schitarrate elettriche, violini piangenti e cori in crescendo,
mostra tutta la voglia di Oldham di uscire dal minimalismo sonoro che
lo ha sempre contraddistinto. E poi c'è questa nuova vena folk-pop che
fa si che Beware sia pieno di momenti accomodanti, con gentili ballate
acustiche che ricordano addirittura un certo Cat Stevens (Death
Final e ancor di più I Won't Ask Again).
Qui si guarda agli anni settanta, omaggiando sia gli ambasciatori del
dolore di quegli anni (You're Lost,
Heart's Arms con i suoi lugubri archi,
e lo splendido finale con flauto di Afraid Ain't
Me, sono i momenti più devastanti), sia la vena leggera del
folk-rock di allora (I Am Goodbye
e You Don't Love Me, così facili e
cantabili, sarebbero potute anche essere canzoni papabili per una programmazione
radiofonica trentacinque anni fa).
A voi a questo punto il compito di decidere se questa è la fine del vostro
interesse per il personaggio o magari il primo suo disco che scorre finalmente
su coordinate a voi consone. A noi questo Bonnie "Prince" Billy sta piacendo
esattamente come quello di prima. (Nicola Gervasini)