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Jackie
Greene
Giving Up The Ghost
[429
Records
2008]
Se il New York Times lo ha definito "The Prince of Americana", le voci
di corridoio lo hanno inseguito lungo gli anfratti disseminati di tracce
rossastre di desiderio, e chi bazzica l'ambiente ha già registrato l'origine
controllata di un'etichetta ormai ingiallita che difficilmente non lascia
trasparire i caratteri in rilievo di un nome ingombrante. Un ennesimo
nuovo Dylan, un'altra voce che si aggiunge alla lista ormai indefinita
dei maestri moderni o presunti tali, ma tant'è, oggi forse non si giunge
a destinazione se non si è fatta almeno una sosta alla stazione di Duluth.
Jackie Greene è un grande cantautore, oltretutto molto giovane
e con già quattro dischi alle spalle, l'ultimo dei quali, American
Myth, pubblicato dalla talentuosa Verve Forecast circa due
anni fa, la stessa che si era presa la briga di ristampare l'ottimo Sweet
Somewhere Bound appena un anno prima.
Polistrumentista di valore, l'artista di San Francisco ha lasciato intravedere
fino a questo momento un'assoluta predilezione per la folk ballad dipinta
di blues, e le similitudini con il menestrello hanno mostrato segni riconoscibili
anche se perfettamente simmetrici alla padronanza del mezzo creativo.
Ebbene, con il trasferimento a Sacramento e il passaggio alla 429 Records,
etichetta indipendente dai larghi orizzonti, Greene compie un passo notevole
verso la maturità e un'identità che meglio ne caratterizza i connotati.
Il suono è molto ricco, e la produzione del "lupo" Steve Berlin
(già presente nell'album precedente) riscrive all'anagrafe un nome che
ormai sembrava destinato all'anonimato, commercialmente parlando. I collaboratori
sono la quintessenza di ciò che qualsiasi musicista vorrebbe al suo fianco
in sala di registrazione, lo spazio è limitato quindi è impossibile citarli
tutti, l'altro Lobos David Hidalgo, il grande Greg Leisz,
Larry Campbell, Tim Bluhm dei Mother Hips e l'ex Grateful Phil Lesh,
insomma, un cast stellare per un disco inevitabilmente splendido.
Greene non rinuncia alla sua vena poetica confessionale, ma stavolta il
suo roots-inflected pop-rock vibra di suggestioni radio friendly, seguendo
da lontano l'esempio di Ryan Adams, con il quale condivide un certo approccio
soprattutto in alcune canzoni, su tutte l'iniziale Shaken,
un gioiello di eterea bellezza che vibra di popular music. La crescita
dell'artista è confermata dalla disinvoltura con la quale sciorina rock
pulsanti stile Stones primi Settanta (Like A
Ball & Chain o Follow You,
quest'ultima infarcita di slide), e nitide ballate di purezza cristallina
(Prayer For Spanish Harlem, il midtempo
Downhearted, oppure il magistrale
folk-roots di Uphill Mountain, una
gemma in cui sembra di incontrare Mellencamp e il Boss a cena da Dylan).
Menzione a parte per il blues rock di Animal
e I Don't Live In A Dream, la beatlesiana
When You Return, per finire con la
perla del disco, Another Love Gone Bad,
in cui l'accordion di Hidalgo e la steel di Leisz omaggiano un Jerry Garcia
che sembra sorridere dalla porta del paradiso. Il suono è curato ma mai
invadente, e il biglietto da visita con il quale Greene abbandona il fantasma
del suo passato gli fa guadagnare senz'altro un posto tra i grandi, i
nostri naturalmente.
(David Nieri)
www.jackiegreene.com
www.myspace.com/jackiegreene
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