Vent’anni di
Rootshighway sono oltre metà della mia vita. Non
ricordo perché ci andai a sbattere contro: so solo
che ero un ragazzino, che stava comprendendo che
la musica avrebbe avuto una capitale importanza
nella sua vita. Nella musica che queste pagine raccontavano
c’era una sorta di purezza, un fuoco ardente sotto
la cenere. Divenni prima assiduo lettore, poi, timidamente,
iniziai a proporre qualche recensione (la prima
fu quella degli Eggs Over Easy, non ho dubbi), finché
quella piccola comunità virtuale non diventò anche
una comunità in carne ed ossa, una sorta di sigillo
di riconoscimento per un gruppo di appassionati
tanto piccolo quanto affezionato. Poi i tempi cambiano,
le persone cambiano, i rapporti cambiano, e a volte
la parte oscura dentro ciascuno di noi prende il
sopravvento. Ho cambiato casa, ho cambiato città,
ho cambiato vita, ho conosciuto momenti di buio
estremo, ho messo su famiglia. Da quella highway
verso le Radici, nel corso degli anni, ho svoltato
senza neppure la certezza di quale strada – musicale
e non – prendere, e quella piccola comunità che
per tanto tempo era stata casa mia l’ho abbandonata
e tradita.
Ecco, guardare indietro alla storia di Rootshighway
è guardare indietro a vent’anni della mia storia
personale. Non so quanti dischi ho scoperto su queste
pagine. Credo centinaia, molti dei quali sono ancora
costantemente fissi nei miei ascolti. Ricordo Tiny
Voices di Joe Henry, B-Sides & Confessions
di Jeff Black, Mercy di Sam Baker, The
Monitor dei Titus Andronicus e poi i Richmond
Fontaine, i Marah, Israel Nash Gripka e tanti altri
che rimangono, nonostante tutto, compagni di vita.
Se vado a scorrere le classifiche annuali (sbirciando,
perché no, le mie schede) mi rendo conto di quanto
il tempo sia una goccia che scava la roccia. Dischi
che all’epoca ascoltai allo sfinimento oggi mi sembrano
quasi consunti e, spesso, non ne ricordo più di
una o due canzoni. Altri dischi, invece, non solo
sono cresciuti, ma sono diventati compagni di vita,
ne ho imparato a memoria ogni singolo passaggio,
ogni nota, ogni arpeggio e ogni verso. Ecco, può
un disco, una piccola opera umana, reggere nel corso
degli anni mantenendo la sua freschezza? Mi sono
reso conto che, spesso, a non soccombere alla morsa
del tempo non sono tanto quelli che vengono definiti
capolavori conclamati ma dischi “minori” ma densi
e pieni di significato.
Nella mia vita, ne cito tre: Streetcore di
Joe Strummer, Hello Starling di Josh Ritter
e Elvis Perkins In Dearland. Quest’ultimo,
in particolare, rimane la scoperta più preziosa
che queste pagine mi hanno regalato. Forse è la
sintesi della vita, Elvis Perkins in Dearland.
Forse per quegli echi, che rimandano a quelle bande
di paese capaci di accompagnare sia i matrimoni
sia i funerali, forse per quell’indole che riesce
a dissimulare i presagi di disastro dietro ad una
foga quasi irrefrenabile, una sorta di euforica
depressione, in cui le corde sono sempre sul punto
di saltare per la forza di ogni pennata. C’è una
canzone di questo disco, Doomsday, che ne
costituisce l’archetipo. Riesce a parlare del Giorno
del Giudizio e della Morte con una sorta di furia
orgiastica, come se una marching band di New Orleans,
nel bel mezzo di un funerale, si mettesse a suonare
un velocissimo bluegrass. Difficile indicare una
canzone che amo più delle altre, dall’incipit di
Shampoo, con la sua armonica dylaniana ed
il suo passo sghembo, all’andamento quasi voodoo
di I’ll be arriving, dalla brezza di 1
2 3 Goodbye al passo d’addio di Send My Fond
Regards To Lonelyville, passando per la spensieratezza
di I Heard Your Voice In Dresden e Hey,
per giungere alla chiusura meravigliosa, distillata
di gospel e malinconia, della dolcissima How’s
Forever Been Baby.
In ogni solco si percepisce la disincantata tenerezza
di Perkins, che sembrava all’epoca lontano mille
miglia sia dallo stilema del musicista folk, sia
da quello dell’icona indie, e di cui questo disco,
dopo un precedente album che, seppur più convenzionale,
ne aveva già mostrato le doti, pareva potesse essere
la rampa di lancio. Come in un volo interrotto,
la carriera di Perkins non decollò affatto. Soltanto
un disco negli ultimi 12 anni, lontano anni luce
dal mistero di In Dearland, e l’impressione
che qualcosa nella sua vita non sia andato come
doveva andare. Tuttavia, forse è proprio per questo
che sono così legato a questo disco, il più prezioso
che queste pagine mi hanno regalato. Probabilmente
perché è imperfetto (come la vita), perché parla
di amore e morte (gli elementi di cui la vita è
fatta), perché balla sull’orlo del lato buio (e
la vita è una continua danza sul ciglio dell’oscurità).
Per cui, grazie a questa (roots)highway, su cui
ho fatto un pezzo importante di strada con la coscienza
che, per quante deviazioni e controsensi possa aver
preso nel corso degli anni, rimane per me sempre
la strada di casa.