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Elvis Perkins
Elvis Perkins in Dearland
[2009]

La scelta di: Gabriele Gatto


Vent’anni di Rootshighway sono oltre metà della mia vita. Non ricordo perché ci andai a sbattere contro: so solo che ero un ragazzino, che stava comprendendo che la musica avrebbe avuto una capitale importanza nella sua vita. Nella musica che queste pagine raccontavano c’era una sorta di purezza, un fuoco ardente sotto la cenere. Divenni prima assiduo lettore, poi, timidamente, iniziai a proporre qualche recensione (la prima fu quella degli Eggs Over Easy, non ho dubbi), finché quella piccola comunità virtuale non diventò anche una comunità in carne ed ossa, una sorta di sigillo di riconoscimento per un gruppo di appassionati tanto piccolo quanto affezionato. Poi i tempi cambiano, le persone cambiano, i rapporti cambiano, e a volte la parte oscura dentro ciascuno di noi prende il sopravvento. Ho cambiato casa, ho cambiato città, ho cambiato vita, ho conosciuto momenti di buio estremo, ho messo su famiglia. Da quella highway verso le Radici, nel corso degli anni, ho svoltato senza neppure la certezza di quale strada – musicale e non – prendere, e quella piccola comunità che per tanto tempo era stata casa mia l’ho abbandonata e tradita.

Ecco, guardare indietro alla storia di Rootshighway è guardare indietro a vent’anni della mia storia personale. Non so quanti dischi ho scoperto su queste pagine. Credo centinaia, molti dei quali sono ancora costantemente fissi nei miei ascolti. Ricordo Tiny Voices di Joe Henry, B-Sides & Confessions di Jeff Black, Mercy di Sam Baker, The Monitor dei Titus Andronicus e poi i Richmond Fontaine, i Marah, Israel Nash Gripka e tanti altri che rimangono, nonostante tutto, compagni di vita. Se vado a scorrere le classifiche annuali (sbirciando, perché no, le mie schede) mi rendo conto di quanto il tempo sia una goccia che scava la roccia. Dischi che all’epoca ascoltai allo sfinimento oggi mi sembrano quasi consunti e, spesso, non ne ricordo più di una o due canzoni. Altri dischi, invece, non solo sono cresciuti, ma sono diventati compagni di vita, ne ho imparato a memoria ogni singolo passaggio, ogni nota, ogni arpeggio e ogni verso. Ecco, può un disco, una piccola opera umana, reggere nel corso degli anni mantenendo la sua freschezza? Mi sono reso conto che, spesso, a non soccombere alla morsa del tempo non sono tanto quelli che vengono definiti capolavori conclamati ma dischi “minori” ma densi e pieni di significato.

Nella mia vita, ne cito tre: Streetcore di Joe Strummer, Hello Starling di Josh Ritter e Elvis Perkins In Dearland. Quest’ultimo, in particolare, rimane la scoperta più preziosa che queste pagine mi hanno regalato. Forse è la sintesi della vita, Elvis Perkins in Dearland. Forse per quegli echi, che rimandano a quelle bande di paese capaci di accompagnare sia i matrimoni sia i funerali, forse per quell’indole che riesce a dissimulare i presagi di disastro dietro ad una foga quasi irrefrenabile, una sorta di euforica depressione, in cui le corde sono sempre sul punto di saltare per la forza di ogni pennata. C’è una canzone di questo disco, Doomsday, che ne costituisce l’archetipo. Riesce a parlare del Giorno del Giudizio e della Morte con una sorta di furia orgiastica, come se una marching band di New Orleans, nel bel mezzo di un funerale, si mettesse a suonare un velocissimo bluegrass. Difficile indicare una canzone che amo più delle altre, dall’incipit di Shampoo, con la sua armonica dylaniana ed il suo passo sghembo, all’andamento quasi voodoo di I’ll be arriving, dalla brezza di 1 2 3 Goodbye al passo d’addio di Send My Fond Regards To Lonelyville, passando per la spensieratezza di I Heard Your Voice In Dresden e Hey, per giungere alla chiusura meravigliosa, distillata di gospel e malinconia, della dolcissima How’s Forever Been Baby.

In ogni solco si percepisce la disincantata tenerezza di Perkins, che sembrava all’epoca lontano mille miglia sia dallo stilema del musicista folk, sia da quello dell’icona indie, e di cui questo disco, dopo un precedente album che, seppur più convenzionale, ne aveva già mostrato le doti, pareva potesse essere la rampa di lancio. Come in un volo interrotto, la carriera di Perkins non decollò affatto. Soltanto un disco negli ultimi 12 anni, lontano anni luce dal mistero di In Dearland, e l’impressione che qualcosa nella sua vita non sia andato come doveva andare. Tuttavia, forse è proprio per questo che sono così legato a questo disco, il più prezioso che queste pagine mi hanno regalato. Probabilmente perché è imperfetto (come la vita), perché parla di amore e morte (gli elementi di cui la vita è fatta), perché balla sull’orlo del lato buio (e la vita è una continua danza sul ciglio dell’oscurità).

Per cui, grazie a questa (roots)highway, su cui ho fatto un pezzo importante di strada con la coscienza che, per quante deviazioni e controsensi possa aver preso nel corso degli anni, rimane per me sempre la strada di casa.


    



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