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The National
Boxer
[2007]

La scelta di: Giovanni Andreolli


Boxer per i National è stata la consacrazione e la necessaria conferma dopo il discreto successo di Alligator; per il sottoscritto invece è uno dei migliori album di questi primi vent’anni del Duemila e, senza dubbio, tra i miei preferiti in assoluto. Un lp destinato a non invecchiare, a non perdere mai la sua bellezza: infatti, il mio primo ascolto è avvenuto l’anno scorso, ben dodici anni dopo la sua uscita, e non partendo dall’inizio bensì dalla fine; è stata Gospel il principio di questo amore: quei pochi accordi ripetuti, il suo lento crescere che conduce, non alla più convenzionale esplosione, ma soltanto ad una sommessa e misteriosa ammissione (“My angel face is falling, feathers are falling on my feet. Darling can you tie my string? Killers are calling on me”), sono stati gli elementi che mi hanno prima conquistato e poi portato verso questo album, pieno di altri piccoli capolavori.

Il quarto lavoro dei National può essere visto come il punto di arrivo di un percorso cominciato nel 2001, ma anche come un nuovo inizio, dato da una parte dallo stile, in linea con i dischi precedenti e che recupera la migliore tradizione post-punk e new wave degli Ottanta, anche se questa volta in maniera più efficace (grazie anche alla batteria di Bryan Devendorf), e dall’altra da una parte lirica attuale, viva, che ha aiutato il gruppo a evitare la lenta caduta che ha colpito la scena musicale in cui sono nati. In effetti Boxer potrebbe simbolicamente rappresentare il superamento di un contesto di revival nato ad inizio nuovo millennio e spentosi prestissimo, con tutti i suoi protagonisti (Strokes, Interpol...) incapaci di replicare il successo degli esordi; una breve fiammata a cui i National non hanno mai aderito, presentandosi su un piano diverso, che agli inizi li ha lasciati un po’ nell’ombra, per poi lanciarli con forza come veri protagonisti della scena alternativa, ancora in grado di dire qualcosa; e, vent’anni dopo, sono ancora qui, con l’ultimo I’m Easy To Find come ulteriore prova del loro mai spento valore.

Un tratto distintivo del gruppo, oltre alla musica, curata dalle coppie di fratelli Dessner e Devendorf, è l’abilità di Berninger nello scrivere i testi, i quali, resi ancora più sensibili dalla sua voce baritonale, tagliano in profondità l’uomo moderno per farlo a pezzi e tirarne fuori il suo vero volto. Ma per capire il significato di alcuni brani, bisogna prima partire dalla loro storia: il gruppo si forma sul finire degli anni Novanta, quando tutti i protagonisti sono ormai sulla trentina e hanno abbandonato un lavoro stabile e una vita agiata per provare la carriera musicale, ottenendo successo solamente nel 2005 con il citato Alligator e quindi con Boxer del 2007, rispettivamente quattro e sei anni dopo il loro esordio. La loro storia mi permette di arrivare a una conclusione: i National sono come molti di noi. È una frase fatta, troppo utilizzata, ma, in questo caso, vera: i membri della band appartenevano, o appartengono, infatti a quella classe media, definita oggi con disprezzo borghese, di cui facciamo parte in molti e che raramente possiede una sua voce; Berninger e soci hanno deciso di descriverla, senza troppe lusinghe.

Apartment Story
è, a mio parere, un buon modello di riferimento per poter capire la poetica del gruppo: “Oh We’re so disarming darling, everything We did believe is diving off the balcony”; “We’ll stay inside til somebody finds us, do whatever TV tells us, stay inside our rosy minded fuzz, so worry not, all things are well. We’ll be alright, We have our looks and perfume”. Senza sarcasmo, né cattiveria, il cantante descrive quello che vede, cioè il lento declino della società moderna, ormai priva di ideali o bandiere per cui lottare, e strenuamente appesa agli unici appigli che sembrano resistere al mare di nichilismo in cui è immersa: i propri beni, status del benessere, e l’amore, l’unica fede universale. Apartment Story è la sintesi perfetta di questa fondamentale dicotomia, che si svolge nel resto del disco in maniera disgiunta, declinata in ogni sua sfaccettatura di traccia in traccia.

Infatti, tra brani, passatemi il termine, più “romantici”, dove i testi affrontano in modo mai scontato tematiche sentimentali felici (“You know I dreamed about You, for twenty- nine years before I saw You”) ma anche drammatiche (“They’ll find us here, here in the guest room, where We throw money at each other and cry”), spuntano canzoni più critiche, che mettono in luce questa società che tende ad annichilire il singolo individuo, spegnendolo nelle proprie speranze (Mistaken For Strangers) e allontanandolo dalla realtà (Fake Empire). Ma non è una dichiarazione di superiorità morale quella dei National; non è un porsi come creature intoccabili dal capitalismo moderno: è una semplice ammissione, una constatazione consapevole, e meno cupa di quanto possa sembrare, sulla nostra società contemporanea.

“Raise our heavenly glasses to the heavens, squalor victoria, squalor victoria”.


    



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