Boxer
per i National è stata la consacrazione e
la necessaria conferma dopo il discreto successo
di Alligator; per il sottoscritto invece
è uno dei migliori album di questi primi vent’anni
del Duemila e, senza dubbio, tra i miei preferiti
in assoluto. Un lp destinato a non invecchiare,
a non perdere mai la sua bellezza: infatti, il mio
primo ascolto è avvenuto l’anno scorso, ben dodici
anni dopo la sua uscita, e non partendo dall’inizio
bensì dalla fine; è stata Gospel il principio
di questo amore: quei pochi accordi ripetuti, il
suo lento crescere che conduce, non alla più convenzionale
esplosione, ma soltanto ad una sommessa e misteriosa
ammissione (“My angel face is falling, feathers
are falling on my feet. Darling can you tie my string?
Killers are calling on me”), sono stati gli elementi
che mi hanno prima conquistato e poi portato verso
questo album, pieno di altri piccoli capolavori.
Il quarto lavoro dei National può essere visto come
il punto di arrivo di un percorso cominciato nel
2001, ma anche come un nuovo inizio, dato da una
parte dallo stile, in linea con i dischi precedenti
e che recupera la migliore tradizione post-punk
e new wave degli Ottanta, anche se questa volta
in maniera più efficace (grazie anche alla batteria
di Bryan Devendorf), e dall’altra da una parte lirica
attuale, viva, che ha aiutato il gruppo a evitare
la lenta caduta che ha colpito la scena musicale
in cui sono nati. In effetti Boxer
potrebbe simbolicamente rappresentare il superamento
di un contesto di revival nato ad inizio nuovo millennio
e spentosi prestissimo, con tutti i suoi protagonisti
(Strokes, Interpol...) incapaci di replicare il
successo degli esordi; una breve fiammata a cui
i National non hanno mai aderito, presentandosi
su un piano diverso, che agli inizi li ha lasciati
un po’ nell’ombra, per poi lanciarli con forza come
veri protagonisti della scena alternativa, ancora
in grado di dire qualcosa; e, vent’anni dopo, sono
ancora qui, con l’ultimo I’m Easy To Find
come ulteriore prova del loro mai spento valore.
Un tratto distintivo del gruppo, oltre alla musica,
curata dalle coppie di fratelli Dessner e Devendorf,
è l’abilità di Berninger nello scrivere i testi,
i quali, resi ancora più sensibili dalla sua voce
baritonale, tagliano in profondità l’uomo moderno
per farlo a pezzi e tirarne fuori il suo vero volto.
Ma per capire il significato di alcuni brani, bisogna
prima partire dalla loro storia: il gruppo si forma
sul finire degli anni Novanta, quando tutti i protagonisti
sono ormai sulla trentina e hanno abbandonato un
lavoro stabile e una vita agiata per provare la
carriera musicale, ottenendo successo solamente
nel 2005 con il citato Alligator e quindi
con Boxer del 2007, rispettivamente quattro
e sei anni dopo il loro esordio. La loro storia
mi permette di arrivare a una conclusione: i National
sono come molti di noi. È una frase fatta, troppo
utilizzata, ma, in questo caso, vera: i membri della
band appartenevano, o appartengono, infatti a quella
classe media, definita oggi con disprezzo borghese,
di cui facciamo parte in molti e che raramente possiede
una sua voce; Berninger e soci hanno deciso di descriverla,
senza troppe lusinghe.
Apartment Story è, a mio parere, un buon modello
di riferimento per poter capire la poetica del gruppo:
“Oh We’re so disarming darling, everything We did
believe is diving off the balcony”; “We’ll stay
inside til somebody finds us, do whatever TV tells
us, stay inside our rosy minded fuzz, so worry not,
all things are well. We’ll be alright, We have our
looks and perfume”. Senza sarcasmo, né cattiveria,
il cantante descrive quello che vede, cioè il lento
declino della società moderna, ormai priva di ideali
o bandiere per cui lottare, e strenuamente appesa
agli unici appigli che sembrano resistere al mare
di nichilismo in cui è immersa: i propri beni, status
del benessere, e l’amore, l’unica fede universale.
Apartment Story è la sintesi perfetta di
questa fondamentale dicotomia, che si svolge nel
resto del disco in maniera disgiunta, declinata
in ogni sua sfaccettatura di traccia in traccia.
Infatti, tra brani, passatemi il termine, più
“romantici”, dove i testi affrontano in modo mai
scontato tematiche sentimentali felici (“You know
I dreamed about You, for twenty- nine years before
I saw You”) ma anche drammatiche (“They’ll find
us here, here in the guest room, where We throw
money at each other and cry”), spuntano canzoni
più critiche, che mettono in luce questa società
che tende ad annichilire il singolo individuo, spegnendolo
nelle proprie speranze (Mistaken For Strangers)
e allontanandolo dalla realtà (Fake Empire).
Ma non è una dichiarazione di superiorità morale
quella dei National; non è un porsi come
creature intoccabili dal capitalismo moderno: è
una semplice ammissione, una constatazione consapevole,
e meno cupa di quanto possa sembrare, sulla nostra
società contemporanea.
“Raise our heavenly glasses to the heavens, squalor
victoria, squalor victoria”.