Nella storia
di una rock’n’roll band ci si aspetta, prima o poi,
un disco come Among The Ghosts, frutto
di uno sguardo maturo, nel senso che è capace di
esplorare ciò che è personale (o almeno un’idea
condivisa di gruppo) e ciò che è un’interpretazione
della vita. Non sempre succede, ma quando accade
di solito predomina il bianco e il nero, o il grigio,
perché è soltanto così che prendono e si definiscono
i contrasti. I Lucero ci hanno messo vent’anni
ad arrivare ad Among The Ghosts, e la coincidenza
con l’anniversario di RootsHighway pare tutto meno
che casuale. Per quanto distante e su posizioni
diverse, per non dire opposte, la strada resta quella,
ai margini, al limite delle possibilità, sempre
in cerca di qualcosa, che esista o meno. Come ha
detto qualcuno, siamo cresciuti insieme.
Diretto, elettrico, essenziale, Among The Ghosts
è frutto dell’esperienza almeno quanto dell’istinto
innato di una rock’n’roll band e costituisce nello
stesso tempo un gran bel traguardo e un nitido cambio
di direzione. Paiono infatti esaurite le celebrazioni
del sound di Memphis, Big Star compresi, esplorato
nel trittico di 1372 Overton Park, Women
& Work, All A Man Should Do verso un
suono più scarno e nello stesso tempo più suggestivo.
Il cambio di produttore, da Ted Hutt a Matt Ross-Sprang
(che, tra gli altri, ha lavorato con Jason Isbell,
Anderson East, Zac Brown e John Prine) merita un
cenno in più perché, senza snaturare la spontaneità
dei Lucero, Among The Ghosts li rivela a
un diverso livello. Le chitarre elettriche sono
ancora lì, in primo piano, la batteria è un po’
più dinamica (e il basso la segue), le tastiere
sono meno appariscenti, ma più affascinanti, e tutto
è rinviato al servizio delle canzoni.
Il tono della voce di Ben Nichols si mette subito
in evidenza con la stessa Among The Ghosts,
una canzone dal crescendo tortuoso seguito dalla
chitarra di Brian Venable, più misurato del solito,
ma altrettanto incisivo e dalle spettrali tastiere
di Rick Steff, che culmina in un finale epico, dettato
dalla performance alla batteria di Roy Berry. Among
The Ghosts è una canzone grandiosa, un pezzo
di rock’n’roll puro e semplice come non si sentiva
da tempo, che una volta finita lascia nell’aria
quell’odore di benzina, proprio come succede con
la E Street, e le inflessioni springsteeniane non
finiscono qui. Evidenti nella vocazione alle ballate,
tra cui Bottom of the Sea e Everything
Has Changed, sono epidermiche nell’elegiaca
Always Been You per via dell’introduzione
del pianoforte o in Cover Me, dove Ben Nichols
non teme di rubare un titolo così eclatante. Va
da sé che la canzone è un’altra, che però non ha
nulla da invidiare in quanto a tensione e avvia
all’evoluzione nella seconda parte di Among The
Ghosts.
Bellissima To My Dearest Wife, ispirata alle
lettere dei soldati della guerra civile rilette
in chiave autobiografica: partire con una rock’n’roll
band non è come andare in guerra (e tutto sommato
rimane preferibile), ma la distanza dalla famiglia
e dagli affetti resta difficile lo stesso. Con un
adeguato ritmo marziale To My Dearest Wife
si associa naturalmente a Long Way Back Home,
una delle migliori ballate scritte da Ben Nichols.
È un po’ il centro emotivo di Among The Ghosts
e nella sua scia arriva Loving, un’altra
ballata in punta di dita. Sorpresa invece con Back
To The Night, con Michael Shannon (l’attore
preferito da Jeff Nichols, regista e fratello di
Ben) per un talking insolito e poi con il finale
di puro e semplice rock’n’roll sferragliante di
For the Lonely Ones per dire che se Roy Orbison
canta per i solitari, i Lucero rimangono
per tutti, anche quando tornano a casa, anche in
mezzo ai fantasmi.
Ecco che allora riprendono i fiati: cambia tutto,
e non cambia niente perché Among The Ghosts
è essenziale, lineare, coerente e uniforme nel raccontare
la storia di una band e un songwriter che sono cresciuti
senza diventare grandi, ed esprimono una saggezza
senza invecchiare, nemmeno un po’. Rock’n’roll adulto.