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Lucero
Among the Ghosts
[2018]

La scelta di: Marco Denti


Nella storia di una rock’n’roll band ci si aspetta, prima o poi, un disco come Among The Ghosts, frutto di uno sguardo maturo, nel senso che è capace di esplorare ciò che è personale (o almeno un’idea condivisa di gruppo) e ciò che è un’interpretazione della vita. Non sempre succede, ma quando accade di solito predomina il bianco e il nero, o il grigio, perché è soltanto così che prendono e si definiscono i contrasti. I Lucero ci hanno messo vent’anni ad arrivare ad Among The Ghosts, e la coincidenza con l’anniversario di RootsHighway pare tutto meno che casuale. Per quanto distante e su posizioni diverse, per non dire opposte, la strada resta quella, ai margini, al limite delle possibilità, sempre in cerca di qualcosa, che esista o meno. Come ha detto qualcuno, siamo cresciuti insieme.

Diretto, elettrico, essenziale, Among The Ghosts è frutto dell’esperienza almeno quanto dell’istinto innato di una rock’n’roll band e costituisce nello stesso tempo un gran bel traguardo e un nitido cambio di direzione. Paiono infatti esaurite le celebrazioni del sound di Memphis, Big Star compresi, esplorato nel trittico di 1372 Overton Park, Women & Work, All A Man Should Do verso un suono più scarno e nello stesso tempo più suggestivo. Il cambio di produttore, da Ted Hutt a Matt Ross-Sprang (che, tra gli altri, ha lavorato con Jason Isbell, Anderson East, Zac Brown e John Prine) merita un cenno in più perché, senza snaturare la spontaneità dei Lucero, Among The Ghosts li rivela a un diverso livello. Le chitarre elettriche sono ancora lì, in primo piano, la batteria è un po’ più dinamica (e il basso la segue), le tastiere sono meno appariscenti, ma più affascinanti, e tutto è rinviato al servizio delle canzoni.

Il tono della voce di Ben Nichols si mette subito in evidenza con la stessa Among The Ghosts, una canzone dal crescendo tortuoso seguito dalla chitarra di Brian Venable, più misurato del solito, ma altrettanto incisivo e dalle spettrali tastiere di Rick Steff, che culmina in un finale epico, dettato dalla performance alla batteria di Roy Berry. Among The Ghosts è una canzone grandiosa, un pezzo di rock’n’roll puro e semplice come non si sentiva da tempo, che una volta finita lascia nell’aria quell’odore di benzina, proprio come succede con la E Street, e le inflessioni springsteeniane non finiscono qui. Evidenti nella vocazione alle ballate, tra cui Bottom of the Sea e Everything Has Changed, sono epidermiche nell’elegiaca Always Been You per via dell’introduzione del pianoforte o in Cover Me, dove Ben Nichols non teme di rubare un titolo così eclatante. Va da sé che la canzone è un’altra, che però non ha nulla da invidiare in quanto a tensione e avvia all’evoluzione nella seconda parte di Among The Ghosts.

Bellissima To My Dearest Wife, ispirata alle lettere dei soldati della guerra civile rilette in chiave autobiografica: partire con una rock’n’roll band non è come andare in guerra (e tutto sommato rimane preferibile), ma la distanza dalla famiglia e dagli affetti resta difficile lo stesso. Con un adeguato ritmo marziale To My Dearest Wife si associa naturalmente a Long Way Back Home, una delle migliori ballate scritte da Ben Nichols. È un po’ il centro emotivo di Among The Ghosts e nella sua scia arriva Loving, un’altra ballata in punta di dita. Sorpresa invece con Back To The Night, con Michael Shannon (l’attore preferito da Jeff Nichols, regista e fratello di Ben) per un talking insolito e poi con il finale di puro e semplice rock’n’roll sferragliante di For the Lonely Ones per dire che se Roy Orbison canta per i solitari, i Lucero rimangono per tutti, anche quando tornano a casa, anche in mezzo ai fantasmi.

Ecco che allora riprendono i fiati: cambia tutto, e non cambia niente perché Among The Ghosts è essenziale, lineare, coerente e uniforme nel raccontare la storia di una band e un songwriter che sono cresciuti senza diventare grandi, ed esprimono una saggezza senza invecchiare, nemmeno un po’. Rock’n’roll adulto.


    



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