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country deluxe di
Davide Albini (27/09/2012)
Dovrei
forse partire dal dato più curioso, cioè dal coinvolgimento di Beck nella produzione
di un paio di tracce del nuovo album di Dwight Yoakam, curisoamente intitolato
3 Pears, ma sapete che vi dico: il dato è assolutamente ininfluente,
con tutto il rispetto per il buon Beck Hansen. Qui tutto suona come ci aspetteremmo
dalla classe del cowboy losangelino, che dopo sette anni di silenzio discografico
(in verità da Blame the Vain ad oggi c'era stato anche il prezioso disco di cover,
Dwight
Sings Buck, omaggio ad uno dei suoi eroi indiscussi, Buck Owens) torna
all'ovile di una grande major discografica (aveva nel frattempo inciso per la
New West), offrendo ai suoi estimatori uno dei lavori più stimolanti di una lunga
carriera lastricata di successi. Non ci pensa proprio a deporre le armi il buon
Dwight e chi si aspettava soltanto una facile routine da pensione dorata dovrà
ricredersi perché, senza stravolgere un sound che è ormai un classico del country
rock moderno, Yoakam ha messo ordine nella sua soffitta dei ricordi.
Al
posto delle fotografie di Merle e Buck, del primo Elvis, di Gram Parsons, questa
volta i sixties sono stati fonte di diversa ispirazione, lo sguardo rivolto al
soul, al pop più cristallino, e naturalmente al rock'n'roll, persino con punte
di garage che sembrano ricondurlo agli esordi, quando infiammava la scena roots
californiana insieme a gente come Blasters e Los Lobos. Il cambio di direzione
è indolore, perché il marchio Dwight Yoakam è sempre bene impresso, seppure insieme
a collaboratori e musicisti diversi dal solito, ma c'è una varietà di umori e
un andirivieni di rimandi musicali chre ha del sorprendente. Si potrebbe cominciare
con il basso pulsante e funky che introduce Take Hold
of My Hand, brano che già svela importanti implicazioni r&b contenute
nel disco, anche se piegate allo stile country scintillante del nostro Yoakam.
La canzone, folgorante, è scritta a quattro mani con Kid Rock e a voler essere
acidi a tutti i costi è quest'ultimo l'unico dato negativo del disco (che volete
farci, a me i bifolchi americani sono sempre stati antipatici, cercate di capirmi)
insieme alla brutta copertina curata graficamente da Wayne Brezinka, album che
altrove è una sequenza irresistibile di piccoli classici e tanto basta a farci
salire l'entusiasmo.
Waterfall prosegue
nella direzione di ripescaggio dei 60s, intrecciando classicità pop e country,
prima di aprire la strada alla sgroppata rock di Dim
Lights, Thick Smoke, cover d'eccellenza qui resa in una veste elettrica
e frizzante. Trying torna al vero leit motiv
di 3 Pears, altra melodia pop da manuale che sposa Nashville con il sofisticato
sound Motown, a differenza di It's Never Alright che
guidata dal piano e dal raddoppio delle voci prende il volo verso il soul sudista,
prima di atterrare fra le scosse rockabilly di A Heart
Like Mine e le indovinate cadenze pop rock di Long
Way to Go, dolce ballata elettrica ripresa anche nel finale in una
sobria, commovente versione per piano e voce. È in questa giravolta di stili che
3 Pears sorprende: dopo trent'anni Dwight Yoakam ha ancora una
riserva di coraggio e di idee da fare invidia ad un esordiente, sfoderando la
sua anima rock in Nothing But Love e Rock It All
Away e lasciandosi ispirare dalla visione del documentario di Scorsese
su George Harrison ("Living in the Material World") per abbozzare l'incantevole
title track. A prova di bomba, come sempre.