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pure country
music di
Fabio Cerbone (14/05/2012)
Oltre
a possedere uno dei guardaroba più invidiabili e sgargianti dell'intero panorama
country, Marty Stuart è attualmente una sorta di salvatore della patria
per chiunque voglia conservare una memoria storica del genere. La sua progressiva,
radicale discesa nell'anima del suono nashvilliano ha prodotto in queste stagioni
un corpo di canzoni e di dischi sorprendenti per ispirazione, densità, preparazione,
passando dall'antico amore bluegrass al riuscitissimo esperimento gospel di The
Soul's Chapel fino al più recente Ghost
Train, sorta di summa del suo pensiero "conservatore", catturato fra
le mura leggendarie dello Studio B di Nashville. Logico, dunque, che questo primo
volume dedicato alla capitale country, sottotitolo Tear the Woodpile Down,
prosegua il cammino alzando se possibile la posta in gioco: uno spettacolare sfoggio
di chitarre twang, scintillanti melodie rurali, intrecci fra sound urbano, honky
tonk elettrico, hillbilly music e radici che esalta l'intesa strumentale dei Fabulous
Superlatives, chiave di volta della carriera di Stuart e band di levatura
tecnica eccezionale.
Con le partecipazioni del fiddle di Kenny Lovelace
e del banjo di Buck Trent l'ensemble si allarga nelle sfumature, ma tiene saldo
il timone di una country music cristallina e immersa nella golden age del genere,
a cavallo fra anni 50 e 60, quando approdare alla Grand Ole Opry era una benedizione
del Signore e lo spirito industriale viaggiava di pari passo con il talento artistico.
Nashville Volume 1 (presagendo presto una seconda puntata...) è
quindi per lo stesso Stuart, enfant prodige che debuttò ragazzino a metà anni
70 al fianco dell'icona bluegrass Lester Flatt, un percorso nei ricordi, così
bene evocati dall'articolo contenuto nel libretto del cd, una resa dei conti dove
il buon Marty scrive: "oggi la cosa più fuorilegge che tu possa fare a Nashville,
Tennessee è suonare country", ribaltando così l'attitudine rock'n'roll che un
tempo travolse la città. Quindi, se atttenersi alla tradizione significa ora voltare
le spalle ad un sistema produttivo fasullo e addomesticato, ben vengano i fuochi
d'artificio di Tear the Woodpile Down, country
rock scopiettante iniettato di vocalità sudista, la leggiadra ballad Sundown
in Nashville o il tour de force strumentale di Hollywood
Boogie, che pare rispolverare lo spirito che fu dei Buckaroos di Buck
Owens.
È l'intero album ad echeggiare come una sfilata di flashback e
memorabilia di un tempo perduto, nato anche sull'onda del "Marty Stuart Show",
da tempo in onda sui network americani: riuscire a non suonare anacronistici in
una simile condizione è dovuto soltanto al fatto che l'energia e l'ispirazione
volano talmente in alto da non lasciare spazio a troppi ragionamenti. Non occorrono
infatti per apprezzare una svolazzante Holding on to
Nothing, degna del migliore George Jones (rievocato in qualche modo
anche nei suoi storici duetti, qui con Lorrie Carter Bennett in
A Song of Sadness), l'incalzante country'n'roll acustico di Truck
Driver's Blues, una appassionata, intima The
Lonely Kind. Naturale in questo scenario che, alla conclusione della
passeggiata lungo il Music Row nashvilliano, spunti un brano di Hank Williams,
lì dove tutto ha preso una piega mitologica: Picture
From Life's Other Side, scelta per nulla scontata, distende il suo
racconto acustico intrecciando le voci di Marty Stuart e di un misurato Hank
III, facendo da ponte fra le generazioni.