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are you ready for the country? di
Fabio Cerbone (06/03/2013)
Una tenera, antica danza cajun condotta per mano dal violino introduce Hearts
and Minds, segnale di svolta o per meglio dire inversione di marcia
verso la tradizione dei primi giorni per i Son Volt. Il titolo d'altronde
è esplicito: Honky Tonk, ballate per cuori infranti in fondo al
bancone del bar, melodie country di un passato remoto, cercando i fantasmi di
quella che fu la rivoluzione di Bakersfield e di un suono che ha fatto storia
nelle voci di Buck Owens, del primo Merle Haggard e di nomi meno noti come Wynnn
Stewart o Tommy Collins. Epopea di una musica lontana nella memoria, vicina alla
mente di Jay Farrar, che intenzionalmente abbandona un po' di quell'ermetismo
alternative country che lo ha sempre caratterizzato, per scrivere canzoni più
dirette e semplici, senza per questo abbandonare quella malinconia agrodolce che
stringe da sempre in una morsa le sue composizioni.
L'esito è, a seconda
dei punti di vista, impeccabile e sterile al tempo stesso, attraversando armoniosamente
un'epoca mitizzata dell'american music, dando fiato alle evocazioni di fiddle,
pedal steel e chitarre dagli inconfondibili accenti country rock, tra il sussultare
leggiadro di Brick Walls, il manifesto Bakersfield
e la languida tristezza di Wild Side e Livin'
On. Le intenzioni sono quindi chiarissime, spiegate con dovizia di
particolari, ma nulla giustifica un disco che sembra più un atto di amore verso
un mondo scomparso che non un ulteriore passo in avanti per la band. Infatti,
nonostante incomprensioni e diciamo pure immeritate sottovalutazioni - troppo
spesso liquidati come semplici "conservatori" - i Son Volt hanno seguito un percorso
coraggioso, che anche in anni recenti, attraverso lavori come The Search, ha saputo
mantenere vivo e centrale il discorso sul rock delle radici. American
Central Dust aveva in parte riportato in superficie il lato più tradizionale
dei Son Volt, ma sempre tenendosi a distanza dalla scorciatoia del roots revival.
Honky Tonk suona per la prima volta come un disco in ritirata, forse un
episodio a sé stante, ma certamente quello che più ricalca e rimastica certo alt-country
da manuale che avevamo ascoltato ad inizio carriera: non soprenderebbe sapere
che Down the Highway o il placido walzer di
Tears of Change provengano da Trace e Straightaways.
Dischi bellissimi questi ultimi, sia chiaro, tappe indelebili dell'alternative
country anni 90, ma appunto episodi già consegnati alla storia. Farrar, quest'oggi
affiancato da volti nuovi oltre che dai soliti Mark Spencer e Dave Bryson, batte
insomma il sentiero delle retrovie e si mette a giocare con lo stile: forse la
contemporanea pubblicazione di un diario di memorie personali, Falling Cars
and Junkyard Dogs, lo ha spinto a scoperchiare vecchi amori mai sopiti, cercando
riparo nella maniera country senza tempo di Seawall
e Shine On. Di sicuro è difficile dargli ragione quando si affretta a dire
che Honky Tonk non rappresenta "una stretta aderenza alla metologia del passato":
qui tutto è esattamente immacolato e passatista.