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retro rock di
Fabio Cerbone (06/10/2012)
Si,
l'abbiamo capito: retro rock "is the new loud", come direbbero in America, invasione
sostanzialmente pacifica di rock'n'roll band alle prese con la memoria storica
(più o meno distorta, e più o meno ingenuamente rivista) di un genere, Eden mitizzato
a cavallo di due decenni chiave per la nostra musica, crepuscolo dei Sessanta
e ascesa dei Settanta per avere un'idea, là dove Lester Bangs ancora si
domandava se Nuggets fosse il vero ultimo rigurgito punk e intanto l'Estate
dell'amore di Frisco si tramutava in un incubo post-Woodstock. Qui ci chiamiamo
RootsHighway e le radici le abbiamo bene impresse nella mente, ma dal puro amarcord
all'omaggio personale il passo è lungo e certo non ci accontentiamo di una replica,
magari placcata oro.
Tutto questo preombolo per assestare i giusti colpi
alla nuova opera dei canadesi Sheepdogs, fenomeno a suo modo imprevedibile
che ha rimpolpato questo spirito di entusiastico revival. La storia è forse nota:
pubblicano una manciata di dischi indipendenti in madre patria, ma non se li fila
nessuno al di fuori dei confini di Saskatoon. Il colpo di fortuna, dopo avere
costruito una solida base di sostenitori, è quello di finire sulla copertina di
Rolling Stone, vincitori del concorso "Choose the Cover". Il fenomeno esplode:
il terso disco Lean & Burn, fieramente segnato dalle chitarre spadroneggianti
sulla cover, viene ripubblicato dalla Wea per il mercato internazionale e la formazione
veleggia a capo dell'intero rinascimento boogie rock. Con l'omonimo album in esame
Ewan Currie e soci ribadiscono, ove ve ne fosse bisogno, il ruolo chiave, portandosi
sulle spalle un fardello tutto sommato piacevole: dall'incedere soulful di Laid
Back alla spedita elettricità di Alright OK,
intrecciando psichedelia (Ewan's Blues) e
hard rock (The Way It Is), persino tentazioni
pop e fughe sudiste (Javelina! sarebbe piaciuta
ai fratelli Allman), rendono il loro obiettivo lampante, ovvero sia suscistare
nostalgia e rimandare di continuo ad un'età dell'oro.
Questa volta però
lo fannno addiritttura con più scaltrezza e una produzione ad hoc firmata con
Patrick Carney dei Black Keys, che qualcosa della ditta di casa aggiunge
per davvero nel groove di Feeling Good e I
Need Help, ma più in generale in una stretta coesione tra riff sanguigni
e ritmi serrati. La formula funziona a patto di non farsi travolgere troppo dai
ricordi, altrimenti si rischia di assegnare più meriti del dovuto agli Sheepdogs.
Perché va bene il lavoro sulle voci (Is Your Dream Worth Dying For?), il
ruzzolare boogie (How Late, How Long, While
We're Young) e il traccheggiare fra la psichedelia d'annata (In
My Mind), ma alla fine più che Grand Funk railroad, Humble Pie o James
Gang, viene in mente che potrebbero assomigliare agli Stillwater, la band inventata
dal regista Cameron Crowe per "Almost Famous". Un po' posticcia la cosa, non trovate?