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: indie rock di
Nicola Gervasini (01/03/2012)
Strade
diverse, ma percorse con lo stesso passo: è questo il destino che lega Will Sheff
e Jonathan Meiburg. L'addio di quest'ultimo al mondo degli Okkervil River (per
anni ne è stato attivo collaboratore) sembra ormai definitivo, la sua creatura
marina Shearwater ha raccolto sufficienti consensi per continuare da sola,
grazie ad una trilogia dedicata proprio all'acqua che ha avuto in Rook
il suo apice e nel precedente The
Golden Archipelago il suo più stanco canto del cigno. E così, come
l'amico Will, Jonathan ha sentito la necessità di cambiare, mossa non facile per
uno con una vocalità così caratterizzante come la sua, condannato com'è ad evocare
immagini senza poter urlare rabbia. Ma se l'animale non può cambiare voce, perlomeno
può cambiare il manto (e magari anche etichetta, passando alla più scafata Sub
Pop), e laddove gli Okkervil River hanno svoltato negli anni dieci tenendo testa
al synth-sound revival che abbiamo nelle orecchie al momento anche grazie a Lanegan
e tanti altri, Meiburg prova una solo apparentemente improbabile via rock che
sta facendo storcere non poco il naso a chi li apprezzava per la loro misura e
modestia.
L'anima di Animal Joy è tutta nel titolo e nelle
unghie della copertina, nell'animale che abita nella grancassa del batterista
Thor Harris, una bestia che sbraita con passo pesante e fa rimbombare la pareti
con un "big drum sound" d'altritempi che imperversa anche quando magari
il ritmo si fa dark e ipnotico (ma quanto sarebbero piaciute ai Cure di Faith
e Pornography le gotiche Dread Sovereign e
la lunga Insolence?), ma anche nella gioia
di riscoprire la propria componente selvaggia, evidenziata dai testi sempre alla
ricerca delle contraddizioni della civilizzazione e di quanto natura, animali
e uomo siano dolorosamente in simbiosi. Meiburg vince la sua partita esattamente
come il compare, non arrivando forse al capolavoro della band, ma impostando una
svolta stilistica credibile, che ha tutta l'aria di poter essere duratura. E lo
fa non perdendo nulla del suo fascino, intatto quando trova le melodie perfette
(You As You Were o Star
Of The Age), quando cerca l'immediatezza di una pop-song (Breaking
The Yearlings, ma anche la title-track), o quando si ferma a meditare
come solo lui sa fare (Believing Makes It Easy).
Si può notare che, come spesso succede alle opere di transizione, c'è
ancora qualche sbavatura da aggiustare, magari l'indiavolato ritmo di Immacolate
che va troppo oltre le loro possibilità, o la pestata di Harris non così necessaria
in Open Your Houses, e in generale una parte
centrale che non tiene la stessa tensione degli estremi, ma nel complesso la battaglia
pare vinta. Ora c'è però la guerra contro il loro stesso pubblico, che non è detto
che sia pronto a perdonare l'unica mossa intelligente che potevano fare. D'altronde
questi anni dieci stanno finalmente cominciando ad avere una connotazione stilistica
lontana dal mito dell'artista indipendente, musicalmente scarno e solitario degli
anni zero, e gli Shearwater vogliono esserci quando finalmente capiremo dove stiamo
approdando.