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blues rock di
Nicola Gervasini (30/04/2012)
Durante
un recente concerto a Milano, John Hiatt ha attribuito a Bonnie Raitt il
merito di aver finanziato l'università della sua prole grazie alla stra-venduta
cover di Little Thing Called Love. E non è certo lui l'unico artista che deve
alla brava Bonnie la soddisfazione di aver visto il proprio nome in una classifica
di Billboard. Eppure non è stata davvero solo questa la funzione nella storia
del rock di questa timida blues-girl dai capelli rossi, nata come una delle primissime
chitarriste blues bianche e forte di uno stile riconoscibile che finirà per assorbire
tutta la lezione di Lowell George. Fu prima l'innamoramento per la canzone d'autore,
e poi una fruttuosa sequenza di titoli annacquati con certo pop da radio FM che
hanno fatto di lei un personaggio amato, ma pur sempre considerato secondario
dai più, una brava a mettere in bella forma quelle opere che sarebbero rimaste
nel retrobottega se proposte nella versione originale.
Dopo aver tentato
una improbabile svolta sperimentale con Fundamental nel 1997 (matrimonio artistico
con il produttore Mitchell Froom), Bonnie già da tre album sbarca il lunario facendo
bene quello che meglio sa fare, senza più cedimenti a suoni plastificati, ma senza
neppure particolari slanci creativi. Non fa eccezione neppure questo Slipstream,
che, se non altro, rispetto ai precedenti Silver Lining e Souls Alike ha il merito
di azzeccare quasi tutte le scelte di repertorio e suonare più fresco grazie alla
sapiente produzione di Joe Henry. E se forse ben due riletture tratte da
Time Out Of Mind di Bob Dylan paiono una esagerata genuflessione al mito (meglio
il blues Million Miles comunque, rispetto
ad una Standing On The Doorway che forse necessitava
più pathos), se magari di If You Fail Me Now bastava
lo splendido botta e risposta tra lo stesso Henry e Loudon Wainwright III di quattro
anni fa, risultano interessanti la pianistica God Only
Knows o la leggera Right Down The Line
di Gerry Rafferty.
Il resto è tutto appannaggio del suo team compositivo,
coadiuvato da Randall Bramblett (che tira fuori dal cilindro lo scoppiettante
inizio di Used To Rule The World e qualche
buon blues di marca come Down To You e Ain't Gonna Let You Go) e
dall'ex NRBQ Al Anderson (ma i suoi contributi appaiono i meno incisivi, con una
Split Decision che ormai sa davvero troppo
di Little Feat ultima maniera). Forse alla fine il brano più memorabile resta
la semplice e delicata Marriage Made In Hollywood,
un bel testo di Paul Brady che la Raitt interpreta con il garbo che ce l'ha fatta
amare tanto tempo fa. Nessun brano autografo e un composto e distaccato impegno
in fase di registrazione, se vi accontentate è tutto quello che la Raitt può ancora
dare nel 2012. Basta, ma non avanza.