File Under:T-Bone
Burnett di
Nicola Gervasini (24/05/2012)
Fino
ad oggi il nome di Lisa Marie Presley evocava principalmente due ricordi:
il primo ovviamente papà Elvis, a cui dobbiamo probabilmente anche il fatto di
essere qui a parlare di musica rock, il secondo invece l'infausto matrimonio con
Michael Jackson, love-story che al confronto la liaison Clooney-Canalis sapeva
davvero di vero amore (la Presley spergiura di no, ma le malelingue notarono che
pochi mesi prima del matrimonio la pargoletta era appena diventata unica proprietaria
dei diritti d'immagine del padre, e se ci aggiungiamo che nel contempo Jackson
comprava quelli dei Beatles, fate un po' voi i conti...). Di certo nessuno si
era veramente accorto che dal 2003 la ragazza avesse varato una carriera da pop-singer
con due album (To Whom It May Concern del 2003 e Now What del 2005) che non sono
riusciti neanche a vendere quanto ci si potrebbe aspettare da un personaggio da
prima pagina.
Fallito il tentativo di presentarsi come bad-girl (il secondo
album aveva il bollino Parental Advisory per turpiloquio, duetti irriverenti con
Pink e una improbabile cover da Riot Grrrl di Dirty Laundry di Don Henley),
la Presley ha pensato bene di sdoganarsi nel mondo della musica roots che conta.
Le mosse in questo caso sono le solite: scrivi quindici testi, li fai elaborare
da qualche nome che richiami l'intellighenzia critico-musicale e magari ti assicuri
che anche Pitchfork tratterà del disco (in questo caso parliamo di Richard
Hawley, autore dell' 80% dell'album, ma ci mette la penna persino la stellina
indie Ed Harcourt), mandi i quindici brani a T-Bone Burnett (che ormai
produce questi dischi con la stessa nonchalance con cui paga il conto del dentista)
e il gioco è fatto. Impossibile perdere con una squadra simile, neanche se ti
impegni, per cui Storm & Grace è quello che ti aspetti, un'orgia
di suoni perfetti, lo zenith del Burnett-pensiero, con la netta sensazione che
ormai una sua produzione la possa cantare Robert Plant come Raffaella Carrà senza
che il risultato cambi di troppo.
"Suo padre sarebbe fiero di lei, Lisa
Marie è un'artista di vero American Southern Folk" ci rassicura lui presentando
l'album, dimostrandosi ormai anche abile uomo marketing, ma poi alla fine proprio
tutti i torti non si riesce mai a darglieli. Perché la sostanza c'è, magari annegata
in troppe slow-ballads e leziosità inutili, ma resta poi impossibile rimanere
indifferenti al vocione indolente della Presley quando scorre negli up-tempo di
So Long o Un-Break, oppure nella
spezzata interpretazione di Forgiven per la
quale i sorpresi complimenti (cavoli, ma allora sa davvero cantare!) non si sprecano.
Se poi decidete di darle anche voi credito (male non vi fa di certo), recuperate
la deluxe edition, i quattro brani in più sono inspiegabilmente migliori di molti
altri inclusi nell'album. Puro marketing anche in questo caso probabilmente (Springsteen
insegna...), ma ogni tanto possiamo anche concederci di fare nuovamente la figura
dei fessi.