File Under:folk
rock, americana di
Fabio Cerbone (21/02/2012)
Difficile
prendere un abbaglio con le copertine dei Pines, solitamente dedite ad
una desolazione americana che parla in prima persona delle loro origini, nel bel
mezzo del Midwest. È un motivo ricorrrente che si ripete anche per il quarto episodio
disocgrafico, il secondo su Red House, Dark So Gold, titolo che
incalza e ribadisce l'interesse della band per una certa malinconia folk, la stessa
che li accompagna fin dagli esordi. In questo caso tocca ad un paesaggio degno
di Nebraska (lo stato e il disco potremmo dire, in un colpo solo) dominato da
uno spaventapasseri che dovrebbe suggellare l'anima di queste ballate, un po'
scure e pigre, sulle quali il songwriting di Benson Ramsey e David Huckfelt va
a nozze, acquistando un carattere ombroso ed evocativo. Sullo sfondo il duro,
costante contrasto fra civiltà e campagna, terra e progresso, un che di spettrale
che richiama un immaginario di fattorie in rovina e una vaga ispirazione al venerato
maestro John Steinbeck.
Fin qui le suggestioni, anche intriganti se frequentate
queste pagine, quindi la musica vera e propria, che nonostante una band allargata
a sette elementi (l'ultimo arrivato è il chitarrista Jacob Hanson) si mantiene
asciutta, arida, volutamente d'atmosfera e alla lunga snervante. Coinvolto nuovamente
il padre di Benson (e del fratello Alex alle tastiere), ovvero sia Bo Ramsey,
chitarrista sopraffino e partner storico di Greg Brown, che qui si limita a ribadire
il suo attaccamento quasi maniacale per un folk rock scuro e parecchio sussurrato,
The Pines battono il sentiero sul quale da troppo tempo ormai si sono fossilizzati.
La formula funziona perché unisce una sensibilità rurale con quella sorta di estetica
del suono molto indie rock, riassunta da Cry Cry Crow
e All the While o ancora dalla liquida Moonrise,
Iowa, ma siamo pericolosamente al margine di una chiara ripetizione.
D'altronde non hanno mai brillato per varietà, concentrandosi piuttosto su un
mood che si ripetesse per l'intero disco, abitualmente ridotto all'osso e mai
oltre il canonico minutaggio: Dark So Gold dunque porta a compimento il viaggio
inaugurato attraverso Sparrows in the Bell e soprattutto Tremolo,
ad oggi il disco più fortunato a livello critico dei Pines, quello che li ha resi
chiacchierati a sufficienza nel mondo Americana.
Momenti per apprezzare
la loro arte roots 'minimalista' non mancano ancora adesso: il torbido country
blues elettrico di Rise Up and Be Lonely,
che ricorda certe sortite di Ray Wylie Hubbard, meglio ancora Be
There in Bells, che nel movimento fra piano e slide guitar disegna
una ballata da grandi orizzonti, e infine Chimes,
forse il solo episodio folk rock dai tratti più cristallini e vivaci. Non che
la creazione di quello che la stampa americana ha definito un "cinematic soundscape",
sorta di colonna sonora della depressione del Midwest (la band è orginaria dell'Iowa,
anche se di stanza a Minneapolis), sia un gesto da deplorare, ma qualche variazione
sul tema, dopo quattro dischi in studio, avrebbe certamente giovato.