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folk blues di
Marco Poggio (07809/2012)
Ritorno
alle origini per Kelly Joe Phelps che, per questa sua decima fatica discografica,
decide di dedicarsi nuovamente alla sola chitarra, esplorando con essa quei territori
acustici che ne hanno contraddistinto la carriera fin dagli esordi. Sulle doti
chitarristiche e sulla bontà del songwriting del musicista americano credo che
nessuno abbia alcunché da obiettare, ma anche gli eventuali scettici sono sicuro
che verranno convertiti, è proprio il caso di dirlo, dalla bontà di Brother
Sinner & the Whale. Phelps ha infatti plasmato dodici splendidi brani,
tra autografi e traditional, di chiara derivazione gospel ma intrisi di folk e
blues, nei quali, a livello testuale, a spiccare è una profonda vena religiosa,
come si può facilmente intuire dai chiari rimandi biblici presenti. Lo stesso
Phelps descrive l'album come un libro, del quale Goodbye
to sorrow può essere considerata la prefazione, mentre gli altri brani
hanno funzione di ipotetici capitoli letterari, piccole ma fondamentali parti
di una più ampia opera narrativo-musicale.
Un lavoro pregno di significati
quindi, pur nel suo scarno impianto acustico; un vero e proprio viaggio alla riscoperta
della propria spiritualità e fede in Dio, che Phelps affronta a cuore aperto,
con l'unico supporto della propria fida sei corde. Quest'ultima, sia che si tratti
di una resofonica o di un acustica, è infatti l'indiscussa protagonista dell'intero
lavoro, come ben si può evincere fin dall'incalzante Talking
to Jehova, posta in apertura, con bottleneck d'ordinanza, o nelle tinte
gospel di Hope in the Lord to provide. Se
il traditional I've been converted è un ritorno
verso un arcaico e primordiale blues (era già presente, seppur in una versione
più estesa, sul suo debutto "Lead Me On"), lo strumentale Spit
me outta the whale è territorio ideale per le digressioni chitarristiche
del nostro. Nella sofferta Hard time they never go away,
così come in Pilgrim's reach, la resofonica
cede invece la scena alla chitarra acustica e ad un fingerpicking del quale Phelps
è indiscusso maestro.
Tecnica quest'ultima che ritroviamo nella bellezza
adamantina di Goodbye to sorrow, punto focale della raccolta, dove, ad
una prestazione maiuscola sulla sei corde, si aggiunge una perfomance vocale calda
e avvolgente, e dalla quale traspaiono echi del leggendario bluesman Mississippi
John Hurt. Le tematiche religiose hanno, come accennato in precedenza, ruolo preponderante
nell'economia dell'album, come ribadito dai sentori folk di Sometimes
a drifter, o nel delicato scorrere del bottleneck di Down
on the praying ground. Phelps pare proprio un novello Mississippi John
Hurt, in grado con la musica di riscattare la propria anima dalle brutture a cui
la vita terrena la sottopone quotidianamente, estendo al contempo questa salvifica
redenzione musicale anche a coloro che fruiranno della sua opera. Che siate ferventi
credenti o meno, quello che è fuori discussione è la caratura artistica di Brother
Sinner & the Whale; un vero e proprio toccasana per le orecchie e per l'anima.