File Under:American
patchwork di
Gianfranco Callieri (15/06/2012)
All'undicesimo
album, il secondo per la prestigiosa Alligator, lo svedese trapiantato Anders
Osborne si conferma ancora una volta musicista tra i più istintivi e viscerali
di New Orleans, la città della Louisiana che il nostro si è abituato a chiamare
"casa" dai tempi del lontano 1985. Autore in grado di scrivere canzoni per Tim
McGraw come per Kim Carnes, chitarrista capace di distillare ogni genere di fuoco
e di fiamme da una logora Strato di trent'anni fa e artista abituato a padroneggiare
sia la composta maturità rootsy di Ash Wednesday Blues (2001) sia il laconico
gemito bluesy di Break The Chain ('93), sia il folklore carnevalesco di Bury The
Hatchet ('02) sia la composta malinconia vanmorrisoniana di Coming
Down ('07), l'Osborne di Black Eye Galaxy continua a
percorrere l'ubriacante sentiero hendrixiano del precedente American
Patchwork con immutata felicità creativa: protagonisti assoluti dell'opera
sono di nuovo la furia del rock più sferzante, l'istinto ferino di un power-blues
infradiciato di distorsioni e sventagliate di sei corde assassine, il devastante
incedere elettrico di una scrittura dove, specialmente nel fuzz ringhiante delle
iniziali Send Me A Friend e Mind
Of A Junkie, l'ipnosi del ruggito rockista conta molto di più della
raffinatezza dei dettagli strumentali.
Composto da dieci pezzi lunghi
e sofferti, Black Eye Galaxy si divide idealmente in due facciate, peraltro separate
dalla citazione vintage della puntina del giradischi intenta, in un crepitare
inconfondibile di vinile, ad alzarsi ed abbassarsi. L'ipotetico lato A, costellato
dai brani più sudici e rabbiosi, parla un linguaggio swampy bluesato, funkeggiante
e ferocemente rockista; il lato B, invece, nonostante i dieci minuti inaugurali
di una title-track tanto arroventata quanto sconnessa, si ammorbidisce nei toni
medi di una canzone d'autore ingentilita da frequenti speziature folkie e da una
Dancing In The Wind, scritta a quattro mani
con Paul Barrére dei Little Feat, influenzata dalla dolcezza di Jackson Browne
e dalle romanticherie arruffate di Willy DeVille. Nei pezzi più tosti (per esempio
nel sontuoso, notturno poema rock'n'roll di una When
Will I See You Again dal mordente strepitoso) risulta fondamentale
la produzione ridotta all'osso del batterista Stanton Moore, mentre in quelli
più distesi, dal soul purissimo di Lean On Me / Believe
In You al luminoso country-folk di Tracking
My Roots (un'occasione per scherzare un po' sulla condizione di esule
volontario del titolare), a mangiarsi la scena sono la natura e i colori di Bourbon
Street, i fondali espressionisti di Big Easy, i profumi e i sapori del gumbo.
I due o tre riempitivi sfornati per l'occasione, a cominciare dal folk-rock
percussivo di una Louisiana Gold che, non l'avesse già scritta Paul Simon,
sarebbe perfino gradevole nella sua meccanicità, non guastano la complessiva riuscita
di Black Eye Galaxy. È lecito sperare in un prossimo disco all'insegna dell'ennesimo
cambiamento, ma è pure giusto sottolineare come anche questa volta la magia di
New Orleans, per chi ama il voodoo delle chitarre e le ballate cajun del Golfo
del Messico, sia rimasta intatta.