File Under:The
road goes on forever di
Gianfranco Callieri (08/06/2012)
Partendo
dalla considerazione che Willie Nelson, una delle leggende viventi della
musica americana, all'età di 79 anni, dopo 200 dischi pubblicati e 75 milioni
di copie vendute, potrebbe registrare quello che gli pare nell'olimpica consapevolezza
di una rendita commerciale a dir poco garantita, la coerenza artistica di un album
come Heroes non può non destare meraviglia persino nell'ascoltatore
più prevenuto. Trovarlo poi non così diverso dai suoi predecessori, se non in
termini di ispirazione, conferma l'impressione di musicista ormai consacrato alla
ricerca di un grado zero del suono e della scrittura fatto di arrangiamenti minimali,
canzoni scontornate nei minimi dettagli e variazioni impercettibili, ma determinanti
del paesaggio sonoro. Somigliante più a un raduno di famiglia, con tanto di appositi
showcases per i figli Lukas e Micah, peraltro bravissimi e (nel caso del primo)
straordinariamente affini al timbro vocale del genitore, che a un prodotto concepito
assecondando i canoni di qualsiasi strategia commerciale, Heroes è il miglior
disco di Nelson dai tempi di Teatro (1998), considerazione a dir poco stupefacente
se si pensa all'incredibile qualità media di quanto proposto dall'autore negli
ultimi dieci anni, forse i più fulgidi in assoluto di una carriera comunque sempre
vissuta all'insegna delle incognite e delle contaminazioni.
In apparenza
ci troviamo di fronte all'ennesimo cahier delle molte facce dell'artista, in miracoloso
equilibrio tra antico e moderno, tra il crooning delizioso della Cold
War With You di Floyd Tillman (riletta assieme a un altro arzillo giovanotto
come Ray Price, 86 anni lo scorso gennaio) e il country straccione e operaio di
Hero (con le voci di Jamey Johnson
e Billy Joe Shaver), tra il delizioso western-swing di Every
Time He Drinks He Thinks Of Her e Home In
San Antone (da far impazzire d'invidia gli Asleep At The Wheel) e l'epica
folkie della sferzante The Sound Of Your Memory,
ma basta approfondire la materia per rendersi conto di come ogni traccia di Heroes
sia imbevuta di filosofia, spiritualità e struggente fatalismo beat. Il tutto
- sia chiaro - confezionato senza appesantire in alcun modo la naturalezza sovrumana
dell'elocuzione, stupenda nel decantare le gioie della marijuana, in una
Roll Me Up di stretta osservanza honky-tonk boogie (si uniscono all'elogio
della canapa persino Snoop Doogy Dogg e Kris Kristofferson), come nella
rivisitazione elettroacustica di vecchi classici (A Horse
Called Music è del 1989 ma, grazie al gioco tra l'ugola tenorile del
padrone di casa e il baritono da balera di Merle Haggard, non è mai stata così
bella).
Incredibili, infine, sono le covers, al solito talmente personali
e definitive da far pensare che i brani siano stati composti appositamente per
l'interpretazione di Nelson. Come On Up The House è
un Tom Waits riproposto in chiave gospel, con Sheryl Crow alla seconda voce e
una quintalata di soul nell'intercalare tra l'armonica di Mickey Raphael, il B3
di Paul Shaffer e il piano di Jim Brown; Just Breathe
dei Pearl Jam (da Backspacer ['09]), in melanconica riduzione semiacustica,
mette a confronto le voci di due generazioni - quelle dei Nelson padre e figlio
- per un trattato di sublime poesia folk-rock. Ma è The
Scientist, proprio il brano dei Coldplay, interpretata in splendida
solitudine (giusto il soffio della pedal-steel di Greg Leisz nel fondale) nella
prima parte per essere dopo consegnata a un bridge che è pura emozione inchiodata
sul pentagramma, a distruggere il cuore e a far credere che, dietro alle parole
"Nessuno ha detto fosse facile / Nessuno ha mai detto potesse essere così difficile",
ci siano tutte le gioie, i dolori, i magoni, i sorrisi, le difficoltà e i sospiri
di ottant'anni regalati alla musica più bella del mondo.