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: folk rock, songwriter di
Fabio Cerbone (01/02/2012)
Ad
Anais Mitchell piacciono le sfide, non c'è dubbio, e questo già la rende
una musicista fuori del comune. Hadestown
è stata una folk opera (una rivisitazione moderna e americana del mito di Orfeo)
che ha cambiato le carte in tavola nella sua carriera: un disco imprevedibile,
coraggioso, corale, dove la figura di Anais si amalgamava, meglio quasi si annullava
con le voci degli altri protagonisti (dall'amica a mentore Ani DiFranco a Bon
Iver). Young Man in America la riporta al centro dei riflettori,
sostenendo da sola il peso di un songwriting che si è fatto sempre più interessante
e non indifferente ad un piglio letterario. Stoffa ereditata dal padre, scrittore
che molto ha suggestionato le scelte della figlia: a lui è dedicata la fragile
ballata The Sheperd, in qualche modo ispirata
da una novella, "The Souls of Lambs", scritta proprio da papà Mitchell
sul finire degli anni Settanta. Allora era un giovane uomo, letterato in cerca
di una sua dimensione artistica: così si sente oggi la stessa Anais, matura e
sulle tracce di un'America in recessione.
Young Man in America non è esattamente
un concept album ambizioso quanto il precedente - una scelta che sarebbe stata
peraltro eccessiva da ripetere - eppure mantiene quei tratti di indagine e riflessione
che portano Anais Mitchell fuori dal guscio di una scrittura solo introspettiva,
qui per giunta artista donna che si misura con il suo lato maschile. Ecco un'altra
caratteristica che sembra distinguerla nettamente dal mucchio: si guarda attorno,
elabora in modo personale eredità passate, fatti e sensazioni dall'ambiente circostante,
trattando così di temi universali e storie concrete in più momenti. Wilderland
è la scintilla che ha fatto scattare il tutto: America in ginocchio, come terra
selvaggia e dura, una melodia folk che fluttua su spirali scure e ancestrali,
si concatena in un percorso unico con la successiva title track, dove il protagonista
è l'uomo americano generico, la sua quasi mitologica ricerca del piacere e del
successo, con il prezzo da pagare che tutto ciò richiede. Il viaggio musicale
così introdotto approderà infine alle irresistibili intersezioni fra pop, folk
e reminiscenze dixieland di You Are Forgiven
e alla lunga, dilatata litania di Ships.
Il
suono è apparentemente scarno, sparso, prende piede dalla semplicità armonica
del folkrore e della roots music, ma si stratifica con soluzioni ritmiche, parti
corali che affiancano la voce fanciullesca, stranita della stessa Anais. Il lavoro
di Todd Sickafoose (piano, basso) è ancora una volta mirabile e come in
Hadestown aveva "manipolato" aggiungendo pezzi, dirigendo una sorta di piccola
orchestra, qui ripete l'operazione grazie all'intreccio di percussioni fra Andrew
Borger e Kenny Wollesen, ma soprattutto con il contributo e la sensibilità di
Adam Levy (chitarre), Jenny Scheinman (violino), la piccola sezione fiati (tromba
e clarinetto) di Ara Anderson e Ban Goldberg, musicisti di educazione jazz che
incontrano la tradizione (c'è anche il mandolino di Chris Thile, ex Nickelcreek)
con assoluta disinvoltura. L'esito è di una raffinata lucentezza: nella già citata
Young Man in America, compreso un finale bandistico per fiati e percussioni,
nei ricami folk cameristici di He Did e Annemarie,
fra le malinconie di un leggiadro roots sound in Dyin
Day e per contro nella giocosa danza di Venus,
accompagnata dall'accordion di Rob Burger.
Una conferma a pieni voti,
anche per chi sospettava che il precedente lavoro godesse troppo della luce riflessa
degli altri musicisti. In uscita il 13 febbraio