| | | | | Langhorne
Slim
The Way We Move
[Ramseur
2012] www.langhorneslim.com
File Under:
three
chords and the truth
di
Yuri Susanna (23/07/2012)
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"I
met a blonde girl / She took me into her bed, I wanted her body / She wanted me
dead."
Ecco, per fare un esempio dello stile di scrittura di Sean Scolnick
(aka Langhorne Slim) questi due distici estrapolati da On
the Attack vanno più che bene. Non il più raffinato dei cesellatori
di versi, Scolnick fa dell'attitudine diretta - come dire: quello che penso ve
lo sbatto in faccia - la sua forza. E non solo nelle parole che urla, se è vero
che quello che lo distingue da sempre nel mazzo dei folksinger contemporanei è
l'immediatezza con cui la sua musica riesce ad arrivare all'ascoltatore. "Urgenza"
è la parola chiave. Neanche la produzione del Decemberist Chris Funk sul precedente
Be Set Free (2009), che aveva allargato lo spettro dei suoni aggiungendo viole,
violini, dulcimer e quant'altro potesse stemperare il combat folk dello spettinato
ragazzo della Pensylvania, riusciva a celare la natura scomposta e irrefrenabile
delle sue canzoni.
Per The Way We Move, il quarto album,
Scolnick si è prodotto da solo ed è andato in qualche modo "back to the basics":
l'intento dichiarato era quello di catturare l'eccitazione dei concerti con The
Law, la sua nuova band. Oddìo, nuova per modo di dire: in realtà la sezione ritmica
composta da Malachi DeLorenzo e Jeff Ratner lo accompagna da anni. La novità è
l'ingresso in formazione di David Moore, che si occupa di piano, organo e contrappunti
di banjo, ed è fondamentale nel dare un colore distintivo ad alcuni brani, vedi
la ruspante divagazione soul di Fire. Sovraincisioni
ridotte al minimo, dunque (giusto qualche fiato, qua e là), e un suono che esce
dalle casse più crudo di un piatto di sashimi. Non il disco da regalare ad un
amico audiofilo, piuttosto una sorta di manuale in 41 minuti su come rendere viva
e pulsante una musica dall'anima vetusta, che non inventa nulla (un quarto di
folk dylaniato, un quarto di tradizione appalachiana, un quarto di scombinato
"slackerismo" post-Beck, un quarto di attitudine punk), semplicemente interpretando
ogni nota come se fosse l'ultima e infilzando ad ogni canzone il cuore sul manico
della chitarra, lasciandolo lì a sanguinare.
Non è stato un periodo felice
per Scolnick: la sua biografia racconta della fine di una storia d'amore, di un
periodo di vagabondaggio senza casa (ne scorgiamo il riflesso nel testo di Bad
Luck), della morte del padre (ricordato nella commossa - inevitabilmente
- Song for Sid). Ma se il disco si inserisce
in qualche modo in una lunga tradizione di "breakup albums" (da Blood on the Tracks
di Dylan a Sea Change di Beck, per restare nell'ambito delle influenze dirette),
Langhorne Slim non si lascia andare all'autocommiserazione o al risentimento.
Il pugile in copertina, colto nel momento che precede il knock down, si rialzerà:
è il messaggio di speranza che cercano di comunicare questi nuovi brani. Una filosofia
scontatamente consolatoria, certo, ma se ad esporcela è un artista visceralmente
sincero e simpaticamente arruffato si può anche far finta di crederci. Almeno
per il tempo di 14 canzoni.
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