Sonny Landreth
Elemental Journey
[P
roper 2012
]

www.sonnylandreth.com


File Under: trip per chitarristi

di Davide Albini (13/06/2012)

Ah i chitarristi, c'è da capirli, specialmente se sono virtuosi conclamati che si sentono un po' schiacciati nello spazio e nelle regole di una canzone, magari al servizio di altri. E dire che Sonny Landreth sembrava fino ad oggi più interessato alla struttura classica del songwriting, con dischi anche di livello qualitativo medio-alto per uno strumentista dalla sua razza (la voce probabilmente non è mai stata il suo forte, ma i brani li ha sempre saputi scrivere). Prove soliste quali Leeve Town o il precedente From the Reach, per non parlare dei suoi esordi all'insegna di un rock'n'roll dagli aromi southern blues, erano più che semplici tentativi di ritagliarsi un suo percorso, come spesso accade a musicisti di tale preparazione. Elemental Journey invece cede per la prima volta la mano esclusivamente alla sua destrezza tecnica, definiamola così: si tratta infatti del primo disco interamente strumentale della sua carriera.

Uno scarto notevole rispetto al passato, anche se Landreth non è nuovo a questi esperimenti, comprese le numerose collaborazioni e guest stars che già si facevano notare negli album precedenti. Basterebbero però i nomi degli ospiti Joe Satriani (nell'iniziale Gaia Tribe) e Eric Johnson (in Passionola) per far scattare il campanello d'allarme, quanto meno a chi come noi non ha mai nascosto una certa insofferenza per operazioni di questo stipo. Fermo restando che il giudizio finale deve soltanto basarsi sulla qualità generale di un brano e non certo su preconcetti di tipo stilitico, quello che non mi convince proprio di Elemental Journey sono esattamente queste figure di "manici deluxe"che in qualche modo offrono già un'indicazione di massima del mood generale del disco. Grande precisione, pulizia e rimpalli continui fra le note, una serie di esecuzioni che mettono insieme le radici cajun e zydeco della Lousiana, qualche spunto blues molto nascosto con tanto, troppo rock strumentale vagamente moderno e levigato, buono forse come innocuo sottofondo.

Non finiamo nel campo della ginnastica chitarristica fine a stessa, sia ben chiaro, anche perché Landreth non ha perso il gusto della misura e della sua estrazione regionale (Wonderide sparge ancora un profumo zydeco, in ricordo della sua martoriata New Orleans), ma certo il disco nella sua interezza è consigliabile solo ai patiti della sei corde, e per giunta nelle sue evoluzioni più fredde e studiate, questo il guaio. La presenza, accanto al trio di base formato dal bassista Dave Ranson e dal pianista Steve Conn, di tre differenti batteristi e di una fantomatica Acadiana Symphony Orchestra (praticamente una sezione archi con viola, violini e violocello diretta da Sam Broussard) nella bellezza di cinque tracce, a mio modo di vedere aggrava la situazione, concependo una serie di composizioni genericamente ridondanti (Forgotten Story si salva per un umore un po' caraibico) che alla resa dei conti non lasciano traccia.


    


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