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tesori nazionali del Canada di
Gianfranco Callieri (02/04/2012)
"Cazzo,
odio il freddo" ci dice Margo Timmins, cantando ancora una volta le parole
del fratello Michael, alla fine di The Wilderness, ultimo e migliore
capitolo di una tetralogia - la seie "Nomad" - pubblicata nell'arco di diciotto
mesi ogni volta incrementando una qualità media a dir poco sbalorditiva se rapportata
a una band ormai in circolazione da più di 25 anni. Perché, viene da chiedersi,
se questi sono gli "scarti", o anche solo i brani che non sono riusciti a trovare
uno spazio nei lavori ufficiali, cosa mai potrà essere il nuovo album dei Cowboy
Junkies? Intanto, attraverso una delle loro canzoni più vivaci e rockeggianti
di sempre, appunto Fuck, I Hate The Cold,
ci dicono di essere arrivati a odiare il freddo: "Troppi anni sulle piste da pattinaggio
di Montréal / Troppi anni nelle mansarde della vecchia Toronto / Troppi anni nelle
viscere della Avenue B / Troppi giorni tra le braccia di Lady T / O forse sto
solo diventando vecchio / Ma, cazzo, odio il freddo". A chi sembrassero affermazioni
non dico condivisibili, ma comprensibili esclusivamente dagli enunciatari, bisognerà
ricordare che i Cowboy Junkies sono sempre stati un affare di famiglia, una storia
di fratelli e consanguinei canadesi innamorati di country, rock e psichedelia,
capaci di far coincidere coinvolgimento (degli ascoltatori) e raccolta interiorità
(della musica) in una sintesi di sublime naturalezza.
The Wilderness,
dopo i pellegrinaggi sperimentali di Renmin Park, le canzoni di Vic Chesnutt raccolte
in Demons
e il distorto panorama elettrico di Sing
In My Meadow, assomiglia a un riassunto dell'anima più intimista e
caratteristica dei Cowboy Junkies: dieci canzoni che, dai feedback serpeggianti
attraverso l'iniziale Unanswered Letter (For JB)
fino a quelle pastorali folk-rock, ora movimentate (We
Are The Selfish Ones) ora in jazzata slow-motion (Damaged
From The Start), diventate nel tempo un vero e proprio cavallo di battaglia,
hanno di nuovo il compito di illustrare la dimensione più autentica ed efficace
del gruppo. La qualità media dei pezzi - si diceva - è stratosferica, ma almeno
Angels In The Wilderness, ispirata dalla
Marilynne Robinson di Gilead (torrenziale, ieratica e fittizia autobiografia del
sacerdote protestante John Ames pubblicata anche in Italia, da Einaudi, quattro
anni fa), merita di figurare tra le pagine più brillanti di un catalogo già ricco
di meraviglie.
Quando Margo, avvolta nei rintocchi della chitarra di Michael,
nelle percussioni sospese dell'altro fratello Peter (spesso impegnato a maneggiare
soltanto cembali e spazzole) e nel basso nebuloso di Alan Anton, vi sussurra "Ti
darò il mio cuore e osserverò l'amarezza crescere", l'impressione è che rock e
radici si siano sciolti in un liquido amniotico a sua volta defluito sull'ascoltatore
in un continuo incantesimo di palpiti, dolci oscillazioni, sortilegi appena mormorati,
lievi vibrazioni strumentali sospese tra fiocchi di neve e refoli di vento. Canzoni
trasparenti come ali di farfalla (Staring Man),
suoni ariosi come respiri sul mistero delle nostre vite e dei nostri amori (The
Confession Of Georgie E). Cazzo, che band incredibile.