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classic rock di
Fabio Cerbone (03/09/2012)
Quasi
a compimento di un inaspettato percorso di rinascita artistica avvenuto nell'ultimo
decennio, dopo un "ritiro" per qualche stagione dorata, When I'm President
conferma l'incredibile tenuta di un rocker che si fa beffe delle regole anagrafiche
e di un'immaginario che vorrebbe questa musica vibrante e chiassosa soltanto nelle
mani delle giovani generazioni. Ian Hunter ha compiuto la bellezza di settantatrè
primavere nel giugno scorso e non considera neppure l'idea di deporre le armi
affilate del rock'n'roll, ricaricando il motore della sua Rant Band con un disco
persino più serrato e spavaldo dei suoi predecessori. Shrunken Heads aveva ristabilito
il peso specifico dell'uomo e del musicista, con un piglio politico e polemico;
Man Overboard aveva ridato senso all'autore e al suo volto più intimo e personale;
oggi è il momento della sintesi, attraverso un album di feroci ballate elettriche
e pub rock da battaglia che riassumono quarant'anni di dedizione alla semplice
verità dei tre accordi.
Raddoppiata la coppia di chitarristi in seno alla
Rant band (e il fatto che il disco sia attribuito in coabitazione sigilla
una più stretta intesa musicale), aggiungendo Mark Bosch all'ottimo James Mastro,
servendosi ancora di qualche consiglio prezioso da parte di Andy York (John Mellencamp
Band, Willie Nile), il vecchio cuore dell'ex Mott The Hoople prende al volo il
treno del boogie con la fragorosa Confortable (Flyin'
Scotsman), imbastice sermoni sull'anti-politica e un'America (sua terra
d'adozione) migliore con il rotondo pop rock della title track, e non molla la
presa fino ai cinque minuti di puro romanticisimo e ricordi on the road di Life,
un sorriso per la vita che scovola via e per tutta la gente conosciuta sotto il
palco. Nel mezzo del tragitto un album acceso e fresco che dal personale passa
al sociale, con le immancabili punte di ironia british e un saggio disincanto
che spesso si trasforma in desiderio di rivalsa. Il sound è quello degli ultimi
episodi, un rock che batte il ritmo delle backstreets urbane e non si vergogna
di rispettare le regole del genere: se avete apprezzato il gesto glam del più
recente Alejandro Escovedo (non a caso in duetto con il maestro Hunter in Down
by the Bowery, dal disco Street Songs of Love), se vi ha conquistato l'ingenuità
appassionata di Willie Nile, allora ritroverete molte delle stesse ragioni nel
forsennato rock'n'roll stradaiolo di What For,
fra gli scrosci di sentimantalismo elettrico di Fatally
Flawed e Black tears, quintessenza
della ballata "alla Ian Hunter", o ancora nell'immediata coralità di Saint
e tra le pinte di birra alzate all'unisono in Just the
Way You Look Tonight.
La voce è ancora una volta il dettaglio
più singolare: roca, fremente di passione, non ha perso un briciolo della sua
essenza e semmai si è fatta ancora più trascinante. Nello sfrigolare di valvole
di I Don't Know What You Want duetta persino
con il figlio Jesse Hunter, uscendone vincitrice assoluta. D'altronde qui
classe ed esperienza vorranno pur dire qualcosa: con quarant'anni di duro e puro
rock'n'roll alle spalle non si può perdere la bussola e allora sotto con la sarabanda
sudista di Wild Buch, un titolo un perché,
chitarre che ringhiano e il piano di Andy Burton a ricamare boogie da sallon sullo
sfondo. Poco dopo è la volta di Ta Shunka Witco (Crazy
Horse), la più stramba del lotto, preghiera contro la guerra dell'uomo
bianco che si dilata tra un tambureggiare minimalista, voci filtrate e riverberi:
magari non sarà un capolavoro di fantasia e arrangiamento, ma è la dimostrazione
che questo signore ha 73 tacche segnate sull'albero e tanta voglia di gettarsi
ancora in pista.