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roots-rock, southern music di
Gianfranco Callieri (05/03/2012)
Che
Cary Hudson fosse innamorato di quel Mississippi dov'è nato, quarantasette
anni fa, in un piccolo fazzoletto di terra chiamato Sumrall, era piuttosto evidente.
Che gli abbia dedicato non solo un numero cospicuo di omaggi in forma di canzone,
ma, oggi, persino un intero album, peraltro inciso durante le notti di luna piena
di maggio, giugno e settembre 2011, è una circostanza che travalica l'ossequio
per sconfinare direttamente nel campo della simpatica follia, laddove affetto
e assurdità si confondono. Eppure il progetto di Mississippi Moon
(di certo affettuoso, senz'altro non assurdo) non suona mai, nemmeno per lo spazio
di una singola canzone, estemporaneo o poco digeribile. Anzi, ascolto dopo ascolto
si impone come uno degli album più omogenei ed efficaci tra quelli confezionati
dal Cary Hudson solista, un disco fatto di canzoni e atmosfere al tempo stesso,
in delizioso bilanciamento tra sonorità arcaiche e inconfondibili zampate rock.
Uno dei punti di forza di Mississippi Moon è la produzione di James
"Jimbo" Mathus (tra l'altro proprietario dei Delta Recording Service di Como,
Mississippi, dove il disco è stato registrato), a dir poco irreprensibile nel
cucire addosso alle canzoni di Hudson un abito composto da una miriade di piccole
sfumature rootsy capaci di esaltare il delizioso feeling rurale dell'operazione
senza appiattirne le diverse spigolature elettriche. Poi c'è la scrittura del
titolare, che nonostante abbia stavolta deciso di uscire dal solitario formato
acustico delle ultime opere (accanto alle chitarre di Hudson e Mathus troviamo
i tamburi di Jed Newell, il piano di Eric Carlton e il basso del fidato Justin
Showah), non ha di sicuro dimenticato l'energia delle vecchie avventure con o
senza i Blue Mountain, e soprattutto come canalizzarla in brani tanto essenziali
quanto irresistibili. Il mid-tempo rilassato e folkeggiante di Long
Lost Friend, in apertura, è già una sorpresa: in una cornice disegnata
da pianoforte, chitarre e armonica, Hudson sembra strizzare l'occhio al country-gonzo
adorabile di Jerry Jeff Walker, padrino spirituale anche della successiva Mississippi
Country Girl, rock'n'roll classico e spumeggiante che non avrebbe sfigurato
in un disco dei primi Jayhawks. Banks Of The Edisto,
un brano di Dayna Kurtz, sfoggia invece un portamento più cupo e tenebroso, da
qualche parte tra il vecchio Tom Waits, le murder-ballads dei monti Appalachi
e il soul carcerario delle chain-gangs di Georgia e Alabama, mentre la marziale
Country Blues, in pratica voce e tamburi
a declamare sulle pennate parsimoniose della sei corde di Mathus (notare la finezza
dei suoi incisi), rappresenta l'immancabile trasfigurazione del clawhammer ritmico
di Dock Boggs.
Se Rockin' Blues è
un rockaccio irresistibile, grezzo, sudato e straccione alla maniera dei primi
e più selvatici Stones, l'ipnotico blues chicagoano di
Velvet Elvis ricongiunge lo spirito di Roy Orbison con i fotogrammi
morbosi e misteriosi di David Lynch appena prima di una danza degli spettri intitolata
Storyville (la prima versione del brano,
più rustica e agreste, potete trovarla su Seems To Me [2011]), durante la quale
è impossibile non ricordare i rituali di Dr John e il jazz in formato dixie su
cui si basavano. Ancor più datata (risale addirittura ai "giorni da cani" dei
Blue Mountain), ma sempre bellissima, è Broke Down &
Busted, roots-rock alla John Mellencamp insaporito dal gusto per le
anticaglie strumentali tipico di Mathus; l'ultima Hobo's
Lullaby, poi, arriva dal secolo scorso del folksinger Goebel Reeves,
un contemporaneo di Jimmie Rodgers conosciuto anche come "il vagabondo del Texas",
e chiude l'album con un soffio hillbilly d'altri tempi.
Niente di nuovo,
ça va sans dire. Solo l'ennesimo disco incantevole di un artista che, su semplicità
e trasparenza, ha da tempo costruito la propria cifra stilistica più riconoscibile..