Howlin Rain
The Russian Wilds
[
American/ Columbia  
2012]

www.howlinrain.com


File Under: 70s classic rock

di Fabio Cerbone (28/03/2012)

Messa definitivamente in soffitta la "nuova psichedelia" dei Comets on Fire, sua principale fonte di esposizione artistica, dopo quattro anni di gestazione Ethan Miller rispolvera la sigla Howlin Rain, traendo da un magma - è proprio il caso di dirlo - di ben tre ore di registrazioni il qui presente The Russian Wilds, sensibile aggiustamento di rotta rispetto alla passata produzione, fagocitata da una incessante attività dal vivo. Se infatti l'omonimo esordio e ancor di più Magnificent Fiend svelavano una band immersa nell'iconografia rock settantesca più sudaticcia e in vena di jam chitarristiche, il nuovo corso impressiona di primo acchitto per la coesione strumentale, la maggiore disciplina di scrittura e non ultima la stessa offerta vocale di Miller, che alle urla sguaiate (che di tanto in tanto affiorano ancora) e agli sconquassi hard boogie del recente passato sostituisce un calore più vicino alla soul music.

Di mezzo c'è la zampino di Rick Rubin, un nome altisonante che tuttavia non sembra essere il deus ex machina dell'album quanto piuttosto una specie di stimolatore, una guida che riporta agli anni della sua pionieristica etichetta Def American e di gruppi messi sotto contratto per ridare lustro alla bolgia hard rock di un tempo lontano. Avremmo visto con piacere un tizio come George Drakkoulias dietro il banco di regia di questo The Russian Wilds, un disco talmente anacronistico da suonare in tutto e per tutto un prodotto del 1972 o giù di lì, con un poco di approssimazione. L'esito è eccitante in partenza - grazie anche ad una band completamente rinnovata dagli innesti di Cyrus Comiskey (basso), Isaiah Mitchell (chitarre) e Raj Ojha (batteria) - fra le trame da possente power hard blues di Self Made Man, con una voce che evoca i fantasmi di Steve Marriott (Small Faces, Humble Pie) e virando poi all'epica in Phantom in the Valley, sette minuti che passano con naturalezza dai citati Humble Pie ad un finale latin rock degno dei Santana all'apice artistico.

Tutto molto seducente e dannatamente piacevole all'ascolto, soprattutto se avete un debole per una stagione di grandi raduni e passionalità da palco vissuto, fermo restando che le trame sudiste di Can't Satisfy Me Now, l'evanescente folk psichedelico di Strange Thunder o il gran baccanale di Dark Side (bravo ed essenziale anche il pianista Joel Robinow) sembrano bigini perfetti dove nostalgia e innocenza vanno di pari passo, citando a piene mani Little Feat, James Gang, Grand Funk, Grateful Dead…e gli altri nomi metteteceli voi, fa lo stesso. Il disco nell'insieme perde un po' di forza bruta strada facendo, approcciando invece un mood più dolciastro e meno irruente, dal soul da struscio di Beneath Wild Wings (sarebbe piaciuta al Lenny Kravitz dei tempi d'oro) all'onirica Collage, che avrebbe fatto un figurone sull'ultimo lavoro di Jonathan Wilson, altro rovistatore di ricordi. Che il finale sia rimesso ad uno strumentale dall'intro jazzy e dagli sviluppi degni di una fusione r&b e arcigno rock blues settantesco non è un caso, ma il suggello di un album ostinatamente fuori tempo.


   


<Credits>