File Under:hillbilly
hero di
Fabio Cerbone (05/09/2012)
Immutabile
come le stagioni del folk americano, Malcolm Holcombe non appartiene a
questa epoca: songwriter arcigno e scontroso quanto disarmante e scarmigliato,
come d'altronde riflette la sua figura, macina dischi a ritmo costante. Quasi
uno all'anno, dopo la sua lenta rinascita artistica, seguita ad periodo di tormenti
personali e delusioni discografiche. Down the River potrebbe dunque
essere banalmente liquidato come l'ennesimo capitolo di un carnet ormai segnato
da uno stile inconfondibile, tanto quanto quella voce roca e impastata di pece
blues che echeggia la dura terra sudista in cui è cresciuto l'uomo e il musicista.
Se ne comprenderebbero le ragioni, ma si perderebbero anche sfumature e tensioni
che Down the River porta a compimento in uno dei lavori più spiritati della sua
produzione e certamente anche uno dei più interessanti per la qualità delle collaborazioni.
Lasciatosi alle spalle un'altra etichetta e altri musicisti (il precedente
To
Drink the Rain, registrato in Texas con la Music Road di Jimmy Lafave),
Holcombe torna alla pura indipendenza degli esordi, non mancando di circondarsi
della migliore generazione Americana, quella che popola la Nashville più "alternativa":
dalla regia di Ray Kennedy al basso di Victor Krauss, dalle chitarre, banjo e
dobro di Darrell Scott al fiddle di Tammy Rogers, per riesumare persino i tamburi
di Ken Coomer (Uncle Tupelo, Wilco), l'intero album è segnato da un interplay
strumentale di prima scelta, che esalta e ravviva la tecnica percussiva, furente
dello stesso Malcolm Holcombe, un chitarrista di estrazione country blues dallo
stile eccezionale e personalissimo. Facile allora portare a casa un risultato
musicalmente appagante, con tutti i crismi di una scuola di pensiero che resta
dentro la tradizione dei cosidetti troubadour: basterebbero le presenze di Emmylou
Harris (nell'evocativa In Your Mercy),
Kim Richey (la stessa Down the River, lenta
elegia country per questo ingiusto mondo moderno, visto dai bassifondi) e Steve
Earle (una rustica, incalzante Trail of Money)
a rafforzare tale sensazione, non fosse che il loro apporto è e resterà un omaggio
per un amico più "sfortunato", una sorta di stima artistica che più volte si è
palesata anche in passato.
Il resto lo offre tutto Malcolm Holcombe e
la sua spiritata idea di Americana, che parte dalle torbide acque di Butcher
in Town e attraversa con il solito, caratteristico fingerpicking un
campionario di ballate rurali (The Crossing e The Empty Jar sono
in fondo una variante già sentita mille volte, dentro uno stile che resta funzionale
alla canzone) e ruvida hillbilly music, questa volta anche più elettrica del previsto,
dalla tensione latente di I Call the Shots
al furibondo crescendo di Twisted Arms, uno
dei momenti più saturi ed emozionati del disco insieme alla dura caricatura sociale
di White Wash Job. Una certezza che a qualcuno
apparirà come monotonia, ma personaggi del tenore di Malcolm Holcombe servono
alla causa.