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country rock di
Davide Albini (12/05/2012)
Da
quando è riuscito a radunare qualche migliaio di persone ai famosi picnic musicali
organizzati da Willie Nelson, Pat Green ha dato una svolta alla sua carriera.
Niente male per un ragazzo texano che sognava un giorno di sedere in mezzo ai
suoi idoli e magari di rubargli qualche segreto (o meglio ancora qualche canzone).
Tutto sommato se l'è cavata alla grande, anche se non sarei pronto a giurare che
i suoi dischi abbiamo fatto la storia del country rock della stella solitaria:
certamente hanno venduto discretamente e le tappe discografiche successive hanno
condotto il buon Green verso la Universal, le produzioni doc di Don Gehman (da
John Mellencamp a Hootie & The Blowfish, un mago del roots rock americano) e le
chitarre di David Grissom tra gli altri.
Anche gli album ne hanno giovato:
se non altro il tentativo di non suonare come l'ennesima buona imitazione di Robert
Earl Keen o Joe Ely è servito a Three Days o Lucky Ones (tra i suoi articoli più
interessanti), facendoli suonare come degli onesti prodotti mainstream rock, sempre
e comunque con un occhio di riguardo alle radici. Già le radici: nonostante tutto
Pat Green non ha mai rinnegato Austin, la scena country e i suoi padri ispiratori,
tanto che oggi riparte da "indipendente" con una delle più scontate operazioni,
una colonna sonora di cover che riprende il discorso esattamente là dove era stato
interrotto nel 2001. Si, perchè grazie al primo capitolo di Songs We Wish
We'd Written, Green aveva già saggiato il terreno, pubblicandolo però
in coppia con il collega Cory Morrow, altro apprezzato capofila del country rock
texano. Ora si tratta di un album a nome proprio, anche se il concetto non cambia:
una manciata di brani che dovrebbero sintetizzare l'educazione musicale del nostro,
il suo oscillare fra l'Americana e il mainstream, tra il country d'autore e il
pop rock più americano che ci sia.
Essendo l'esordio in casa Sugar Hill,
abbandonando i lidi dorati delle major dopo più di un decennio, Songs We Wish
We'd Written suona soprattutto come un classico passaggio in attesa (forse) di
tempi migliori. Anche perché Pat Green rimane sempre quel simpatico, preparato,
a volte anche ruggente rocker texano, ma mai oltre il lecito dovere e un po' troppo
ripulito. Da tutto ciò nascono una doverosa ripresa di All
Just to get To You di Joe Ely o una edulcorata If
I Had a Boat di Lyle Lovett, tributi piacevoli e nulla piiù che ti
aspetteresti chiaramente da lui, abbinate ad una più imprevedibile (ma sbiadita)
Soulshine (Warren Haynes), e un'insipida
Even the Losers di Tom Petty, fino alla chiusura
con I Am Too ripescata dal Todd Snider periodo
elettrico anni 90. Green e la sua band le affiancano a giovani e meno giovani
autori dell'altra Nashville, a metà strada fra progresso e conservazione come
si confà al personaggio: tra le altre appaiono la Shelby Lynne di Jesus
on a Greyhound e il Walt Wilkins di If It Weren't For You. Indispensabili?
Ma niente affatto, avreste dovuto già capirlo. Almeno che non siate iscritti al
suo fan club, qui non troverete una sola ragione per farle vostre.