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southern storytelling di
Fabio Cerbone (02/04/2012)
Interrompendo
un silenzio assordante di cinque anni e cercando come tanti di barcamenarsi nella
crisi discografica di inizio secolo, Kevin Gordon ritrova la via di casa
e il tempo prezioso per regalarci un'altra fotografia dai margini del sogno americano.
Avviata l'esperienza - non inedita e assai comune a parecchi colleghi indipendenti
- di una raccolta fondi tra i fan, per sostenere le spese di registrazione e pubblicazione
del disco, dopo tre interminabili stagioni di gestazione (le sessioni risalgono
fra l'autunno del 2008 e la primavera del 2009) Gloryland conosce
oggi uno sbocco concreto, restituendoci una delle penne più profonde del nuovo
Sud, uno storyteller di razza che dalla narrazione dell'esperienze più personali
parte spesso per descrivere con spietata verità e altrettanto romanticismo la
vita ai margini fra Lousiana, Mississippi e Tennessee, suoi luoghi "privilegiati"
di osservazione.
Gloryland è una volta di più una galleria di ricordi,
facce, storie che circoscrivono un "piccolo mondo", al ritmo di una southern music
limacciosa e piena di groove che si fa largo tra swamp rock viscoso, svisate blues
e ballate country soul, tra un pigro laid back tipico di quelle regioni e un songwriting
che molti blasonati colleghi dell'universo Americana si possono soltanto sognare.
Un album costruito spesso su richiami familiari, ma che ha la capacità al tempo
stesso di trasfigurare la vita dell'artista in una disamina sociale di più ampio
respiro: le ombre del razzismo rintoccano nella lunghissima Colfax/Step
in Time, dieci minuti di cronaca in veste roots, mentre Peculia's
Star evoca la dolcissima storia di una donna nera nel profondo Mississippi.
Gloryland, la canzone, è invece un coraggioso
(qualcuno, ci scommetto, farà le pulci a Gordon per questo) accostamento dei fanatismi
religiosi fra un'America depressa e bigotta e un lontano e incomunicabile mondo
medio-orientale travolto dalla guerra. È anche uno dei brani più sferzanti della
raccolta, un parossistico crescendo elettrico che, fatta eccezione per il finale
robusto di One I Love, predilige da altre
parti i toni più dilatati di un southern rock che si ammanta di passione soul
(Don't Stop This Time, Trying
to Get to Memphis, Tearing Down)
grazie al prezioso lavoro di Joe McMahan alle chitarre e organo.
In tal
senso si tratta probabilmente del disco meno pepato e ruspante della produzione
di Gordon, che oggi preferisce una maturità di suono più densa, segnata da legami
profondi con il gospel (la partecipazione delle McCrary sisters in Side
of the Road). Kevin Gordon dovrebbe essere un poeta o così almeno raccontano
le sue cronache formative (una laurea alla Iowa University grazie ad un corso
di scrittura e di specializzazione proprio in poesia), ma come giustamente sottolinea
Grant Alden (fondatore della rivista No Depression) il ragazzo è finito a suonare
rock'n'roll: il passo è più breve del previsto, specialmente se a 12 anni lo zio
Randy ti ha portato a vedere uno show degli ZZ Top nella vicina Shreveport (Bus
to Shreveport ne racconta tutti i dettagli). Bentornato.