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country revisited di
Fabio Cerbone (31/07/2012)
Ha
certamente ragione il suo autore a definirlo Marvin Country!: questo
territorio fuori dalle mappe musicali non è popolato dalla solita idea di american
music, ma sembra rileggerne gli stilemi con un umore del tutto personale,
certamente poco propenso alle regole. Fin qui l'impronta di un musicista che ha
accumulato esperienze e collaborazioni da fare invidia alla più navigata delle
prime donne, se non che, decidendo di allargarsi ad un ambizioso doppio album
(seppure contenuto nel minutaggio, la divisione in quattro facciate è infatti
solo un artificio) ha apertamente sfidato la pazienza dell'ascoltatore e soprattutto
il peso specifico dello stesso repertorio. Ne è uscito con le ossa rotte, qualche
spunto singolare e poche gemme irrimediabilmente perdute nella grande confusione.
Marvin Etzioni era assente dalle scene da una decina d'anni, quanto
meno in prima persona: un paio di lavori, tra cui l'apprezzato The Mandolin Man,
erano i primi anni 90, poi una carriera votata alle quinte, come autore conto
terzi, come produttore e come session man, vantando T Bone Burnett, Counting Crows,
Dixie Chicks, Peter Case e decine di altri nella sua lunga lista personale. Che
avesse voglia di rimettere in gioco tutto se stesso era anche comprensibile, meno
accettabile invece che se ne uscisse con una accozzaglia di schizzi e ripartenze
così raffazzonati. Il primo dei due capitoli di Marvin Coiuntry! appare subito
come il più ispirato e originale, sostenuto in buona parte dalla miriade di duetti:
spiccano l'antica amicizia con Maria McKee (insieme nella meteora roots
rock dei Lone Justice) in You Posess Me e
la prezzemolina Lucinda Williams in Lay It on
the Table, ballate sofferte che alimentano il fuoco della tradizione
folk da cui arriva lo stesso Etzioni. Niente male anche la sortita con lo storico
gruppo gospel Dixie Hummingbirds (You Are the Light)
e la chiusura spalla a spalla con Richard Thompson in
It Don't Cost Much. Assai meno entusiasmanti invece le galoppate country
punk con John Doe (una rattoppata The Grapes of Wrath…bel
titolo, ma oltre non si va) e Steve Earle (la cacofonia per mandolino,
armonica e batteria di Ain't No Work in Mississippi),
tutti esempi di un tentativo maldestro di approcciare la country music e le radici
sudiste. Non si discutono a tratti l'ironia (Bob Dylan
is Dead), altre l'accorata, intima poetica dell'autore Etzioni (la
dedica al nonno immigrato che gli regalò il primo mandolino in There's a Train),
semmai gli esiti musicali.
Registrato in diversi studi californiani, dopo
un lungo lavoro di raccordo, Marvin country! svela molta della sua pretenziosità
(e una sincera mancanza di sintesi) specialmente nel secondo disco. Nella sostanza
abbiamo a che fare con una raccolta di demo e bozzetti: si parte con fragili ballate
folk in chiave lo-fi (Where's Your Analog Spirit?,
Diamond in the Sky), più o meno quello che potrebbero fare gli Eels
alle prese con la tradizione, e si finisce fra le voci campionate di Gram Parsons
in Gram Revisited, gli inutili pastrocchi
di What's Patsy Cline Doing These Days insieme alla protetta Grey Delisle,
un blues destrutturato alla Beck (Trouble Holding Back)
e altri riempitivi di natura acustica, dove peraltro tutte le magagne della voce
di Etzioni vengono a galla. Di questo passo non ci si risolleva più.